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LBR 130 Padre Pio

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PADRE PIO DA PIETRELCINA: Pietrelcina, ridente cittadina posta a una dozzina di chilometri da Benevento, si trova a poco più di 300 metri sul livello del mare. Il nucleo originario del paese è situato su uno sperone di roccia calcarea. Questa zona, detta “Castello”, ha ascoltato i vagiti, ha visto correre e crescere per le piccole corti ed i vicoletti stretti uno dei più grandi figli della terra del Sannio: Francesco Forgione, più noto come Padre Pio da Pietrelcina. LA NASCITA DI PADRE PIO: Francesco nasce in una semplice e rustica casetta di voco Storto Valle numero 32, il 25 maggio 1887. I genitori, Grazio Forgione e Maria Giuseppa Di Nunzio, sono intenti a badare ad un podere posto su a Piana Romana, poco lontano da Pietrelcina. Improvvisamente Maria Giuseppa dice al marito di non sentirsi bene. Zi Grazio allora le chiede di avviarsi verso casa. Dopo aver percorso la via di campagna che da Piana Romana conduce al “Castello”, Peppa si ritrova nella sua piccola, ma confortevole abitazione. Alle 5 del pomeriggio, assistita dalla levatrice Grazia Formichelli, partorisce un bel maschietto avvolto in un velo bianco. Al colmo della gioia, la levatrice esclama entusiasta rivolta alla puerpera ed al marito: “Il bambino è avvolto in un velo bianco: sarà grande e fortunato”.  Il giorno dopo il bambino viene battezzato e chiamato Francesco: il futuro Padre Pio. Anni dopo, riflettendo sulla sua nascita, Padre Pio esprimerà una profonda gratitudine verso Dio: “ Il Signore fin dalla nascita mi ha dimostrato segni di specialissima predilezione: mi ha dimostrato che egli non solo sarebbe stato il mio salvatore, il mio sommo benefattore, ma l’amico devoto, sincero, fedele, l’amico del cuore, l’eterno ed infinito amore, la consolazione, la gioia, il conforto, tutto il mio tesoro”. Il bambino Francesco Forgione vive gli anni della sua prima infanzia correndo per le viuz-ze del castello, saltellando sopra gli jafii, le scalinatelle del “Castello”, buttandosi dolcemente tra le braccia della mamma o giocando con gli amici davanti alla chiesa di Sant’Anna.  E proprio lì, nello spazio antistante la Chiesetta di S.Anna, Francesco comincia ad avere un atteggiamento di profondo rispetto per il tempio, rifiutandosi già da piccolo di giocare, perché lì, nella Chiesa, è presente il Signore Gesù. E proprio Lui, l’Ospite Divino nascosto nel tabernacolo, diviene il rifugio, l’amico del cuore del piccolo Forgione. Agli amichetti che corrono e giocano per le case del rione Castello, Francesco preferisce l’amico Divino: il dolce Gesù. Con lui trascorre, nel silenzio e nella quiete del tempio, ore ed ore di tenera e adorante conversazione. Qui, a Sant’Anna, Francesco a 5 anni ha il privilegio di godere dell’apparizione del Sacro Cuore di Gesù che gli dice di gradire la sua offerta di consacrarsi per sempre a lui. E qui, in questa chiesetta così pregna di spirituali consolazioni, egli si accosta per la prima volta alla prima comunione e riceve poi la cresima. In Sant’Anna Francesco comincia il suo itinerario di comunione con Dio che lo porterà a consacrarsi totalmente a Lui, ad amarlo con tutto il suo cuore, la sua anima, la sua mente, la sua volontà. Tanti fatti segnano l’anima di Francesco Forgione. L’impatto col soprannaturale, avvenuto già in maniera strepitosa con l’apparizione del Sacro Cuore di Gesù a 5 anni, significa per lui anche la conoscenza visiva e dolcissima del suo angelo custode. Ma anche il male è in agguato e più di una volta Francesco ha la visione di esseri bruttissimi, che poi chiamerà “cosacci” e che saranno spesso presenti nella sua vita per impedirgli di attuare la sua missione di salvezza delle anime. Impara presto anche a servire la messa e lo fa con una devozione tale da attirare l’attenzione di tutti i frequentatori di Sant’Anna, che lo vedono raccolto, con le sue mani giunte, in ginocchio ai piedi dell’altare. Anche nei giochi Francesco si limita, il più delle volte, a guardare i compagni, oppure preferisce stare solo. Una delle ragioni di questo comportamento è, forse, da vedere nella sua squisita sensibilità che non sopporta quando gli altri ragazzi si esprimono in parolacce. E’ una cosa che lo fa patire molto.  Ma la sofferenza più grande, il piccolo Forgione, la prova quando sente qualche bestemmia. E’ allora che egli si isola, a volte nascondendosi dietro la porta di casa e piangendo in solitudine. La sua anima innocente si sente profondamente ferita dall’offesa rivolta a Dio. Emerge, in questo atteggiamento, l’aspetto profondamente rispettoso di Dio che prepara l’anima del grande mistico. La famiglia Forgione si reca spesso a lavorare il fazzoletto di terra a Piana Romana. Ed a Francesco viene dato l’incarico di portare al pascolo alcune pecorelle ed una capretta. E così, lascia di buon mattino la casetta di Pietrelcina e, in compagnia del suo piccolo gregge, si inerpica per il sentiero di campagna che conduce a Piana Romana. Il più delle volte è solo a percorrere il sentiero tortuoso che conduce alla Piana. In altri momenti si unisce a lui qualche pastorello del paese, specialmente il cugino Mercurio che porta al pascolo un altro gruppo di pecorelle. E qui, a Piana Romana, Francesco assapora l’ebbrezza tonificante dell’abbraccio della natura circostante. Qui contempla, attraverso la bellezza del Creato e delle messi che biondeggiano sullo sfondo dolce del colline del Sannio, la grandezza e la bontà di Dio.  Lo canta, colmo di gioia, in un suo componimento scolastico:”Tutti i contadini erano sparsi per le campagne ed anche i pastori uscivano con i loro greggi. Gli usignoli pianamente entro le macchie cinguettavano. Qua si sentivano belar pecore, là si vedevano saltellare agneletti. Tutto il Creato era lietissimo”(P.Pio Componimenti scolastici, p. 109 s). L’INCONTRO CON FRA CAMILLO: Francesco Forgione, il futuro Padre Pio, col trascorrere degli anni della sua adolescenza, sente sempre più forte il desiderio di appartenere totalmente al Signore, di consacrarsi a Lui. Conosce, durante le lunghe giornate trascorse a Piana Romana, fra Camillo, un cappuccino che dal convento di Morcone, ogni settimana viene a Pietrelcina per la questua. Francesco resta molto colpito dalla barba del frate francescano. E quando manifesta ai genitori il desiderio di farsi frate, la mamma risponde:”Va bene. Ma fatti monaco a Paduli, qua vicino. così ti vediamo spesso”. A Paduli c’è un convento di frati minori e, come si sa, non hanno la barba. Francesco lo sa, questo, e risponde deciso alla mamma:”No. Io mi voglio fare monaco con la barba”,  rivelando chiaramente ai genitori il segreto della chiamata di Dio già presente nel suo cuore.  In casa Forgione si comincia a parlare con frequenza sempre maggiore della vocazione serafica di Francesco. Mamma Peppa e papà Grazio si consultano: le loro condizioni economiche sono precarie, ma non vogliono deludere le aspettative del figlio. Allora il papà Grazio gli trova un maestro e, per poter affrontare le spese del mantenimento allo studio, decide di andare a lavorare in America. Francesco studia prima con il maestro Domenico Tizzano e poi con il maestro Angelo Càccavo. “Pagavo al maestro cinque lire al mese, cioè mezzo tumulo di grano - racconterà l’anziano Grazio  Forgione - Il ragazzo poi mangiava altro mezzo tumulo. Mi ci voleva un tumulo di grano al mese per mantenerlo”. E lo stesso Padre Pio ricorderà, anni dopo ai suo figli spirituali:”Mio padre varcò due volte l’oceano per darmi la possibilità di diventare frate”.  Anni dopo a Raffaelina Cerase, sua figlia spirituale, il 23 marzo del 1915, così scriverà parafrasando San Paolo nella lettera ai Filippesi (1,31):”Il mio vivere è Cristo”, io vivo per Gesù Cristo, vivo alla sua gloria, vivo a servirlo, vivo per amarlo”. Il luogo dove Francesco Forgione si ritira più frequentemente per lo studio è la stanza della “torretta”, una stanzetta isolata, poggiata sulla “morgia” e sospesa verso il cielo, lontana dal mondo. E’ difficile che lassù qualcuno possa disturbarlo. Ma quando va in campagna, per aiutare i suoi nei lavori dei campi, negli intervalli si apparta a studiare sotto gli alberi. La vocazione religiosa di Francesco non è ancora totalmente chiara. IL suo entusiasmo appare, in certi momenti, offuscato e attutito. Francesco sembra combattuto. Sembra quasi che si senta costretto a fare la scelta religiosa e che, se dipendesse da lui, sarebbe rimasto più volentieri a casa. Nonostante le apparizioni di Gesù, della Madonna e dell’Angelo custode, Francesco sente forti le attrattive del mondo. Sa che nel convento si conduce una vita di sacrifici e di penitenza, e il suo essere istintivamente si ribella. Nel 1901, quattordicenne, va in pellegrinaggio al Santuario della Madonna di Pompei. Il padre, in America, lo viene a sapere e scrive una lettera, rimproverando la moglie perché quel viaggio è costato dei soldi. Francesco allora gli risponde:”Circa la lagnanza fatta alla mamma per la mia andata a Pompei, avete mille ragioni; però dovete pensare che l’anno venturo, a Dio piacendo, finiranno tutte le feste ed i divertimenti per me perché abbandonerò questa vita per abbracciarne un’altra migliore”. Sembra quasi di sentire, in questa frase, un rammarico per una scelta di vita che egli sente densa di sacrifici e sofferenze fisiche e morali. Francesco Forgione sente molto più forte dei suoi coetanei l’attrattiva del mondo e delle sue creature. Ecco perché l’entusiasmo a incamminarsi sulla via della Donazione totale a Cristo, viene in parte frenato dall’opera di Satana che, in tutte le manifestazioni diaboliche, arriva a tormentarlo e spaventarlo, presentandogli, nel modo più accattivante, tutte le attrattive del mondo. Ma lui, pur facendosi a volte distrarre, non cade. Alla fine la sua grande generosità ed il suo amore vincono, preparandogli così il terreno spirituale per l’entrata nel convento. Anni dopo, a San Giovanni Rotondo, ricordando questo travaglio, in una lettera ad una sua figlia spirituale Padre Pio dirà:”Una voce mesta ma dolcissima faceva eco nel povero mio cuore, era l’avviso del padre amoroso, che delineava alla mente del figlio suo i pericoli che avrebbe incontrato nella lotta della vita; era la voce del Padre benigno, che voleva staccato il cuore del figlio da quegli amori infantili, innocenti; era la voce del Padre amoroso, che sussurrava alle orecchie e al cuore del figlio di staccarsi del tutto dalla creta, dal fango e gelosamente consacrarsi interamente a Lui”. Dopo aver fatto domanda di ammissione al padre provinciale dei cappuccini, Francesco Forgione viene accettato. Egli ormai ha capito e scelto definitivamente la strada della donazione totale a Cristo. Sente però fortissimo il dolore di dover abbandonare la famiglia, specialmente la mamma, a cui è molto legato. E’ lo stesso Padre Pio a raccontare un episodio che dimostra quanto amasse mamma Peppa. Un giorno, avendo un po’ di tempo disponibile, lei decide di preparargli un piatto saporito: zucchine cucinate e abbondantemente condite. E mette accanto al piatto un bel grappolo d’uva. Quando giunge Francesco, trova le zucchine veramente profumate e appetitose ma, allontanato da sé il piatto, si mette a piluccare l’uva. La mamma ne resta amareggiata fino alle lacrime. E lo stesso Padre Pio commosso, confesserà anni dopo, ricordando l’episodio:”Se avessi mai pensato che mia madre ne avrebbe avuto tanto dispiacere, mi sarei ingoiato tutte le zucchine”. E sempre Padre Pio, a proposito della partenza per il convento che si avvicinava, dichiarerà poi:”Ma non è da credere che quest’anima nulla avesse a soffrire per l’abbandono da dare ai suoi, ai quali sentiva fortemente legata. Sentiva macinarsi persino le ossa, in questo abbandono da fare. E questo dolore lo sentiva così vivo che era sul punto di svenire, Come si avvicinava il giorno della partenza, questo strazio si andava sempre più crescendo.  L’ultima notte trascorsa con la sua famiglia, il Signore venne a confortarla con un’altra visione. Vide Gesù e la Madre sua che, in tutta la loro maestà, presero a incoraggiarla e ad assicurarla per la loro predilezione. Gesù, infine, le posò una mano sulla testa e tanto bastò per renderla forte da non farle versare nessuna lacrima nel doloroso distacco, nonostante il martirio che la straziava”. LA PARTENZA PER IL CONVENTO DI MORCONE: E’ il 6 gennaio 1903, giorno della partenza per il convento di Morcone. E’ l’alba. Francesco inginocchiato sull’uscio di casa, in vico Storto Valle, chiede la benedizione alla mamma. Commossa fino alle lacrime, Beppa esclama:”Figlio mio, me sento e squarcià ‘u core...Ma san Francesco ti chiama e devi andare”. Le forze l’abbandonano e cade svenuta tra le braccia di una vicina di casa. Alla stazione di Pietrelcina Francesco ed altri due aspiranti, accompagnati dal maestro Caccavo, prendono il treno per Morcone. Nella graziosa e ridente cittadina vengono accolti calorosamente dai frati cappuccini. Dopo essere stati rifocillati, sono invitati a visitare la casa, il vasto giardino e la graziosa chiesa dedicata alla Madonna delle Grazie. Poi il maestro Caccavo torna a Pietrelcina portandosi dietro uno dei due aspiranti, perché troppo piccolo. E Francesco può finalmente godere la gioia di cominciare a vivere l’ideale del Santo di Assisi. Francesco Forgione è dunque entrato nel mistico e solitario convento di Morcone. Un luogo tanto sospirato per sentirsi tutto di Cristo e del Serafico Padre Francesco d’Assisi, nello sforzo quotidiano di vuotarsi di sé per riempirsi tutto di Dio. Per una settimana egli ha il permesso di vivere liberamente nel convento, seguendo gli orari a suo piacimento. Poi, con gli esercizi spirituali che lo preparano alla vestizione del saio francescano, inizia la regolare vita conventuale. Per sei giorni è impegnato a mantenere il silenzio più assoluto. Tutto il tempo è dedicato alla preghiera, alla meditazione ed all’ascolto delle prediche tenute da un anziano padre. FRA PIO: Il mattino del 22 gennaio, alla presenza di tutti i frati riuniti nella chiesa, Francesco insieme ad un gruppetto di altri aspiranti, nel corso di una solenne e intensa cerimonia, viene “spogliato” degli abiti laci che indossa e che rappresentano la vita passata, ed indossa il saio, simbolo di nuova vita. Rivestito dell’abito cappuccino,  egli sente che da questo momento, la sua vita diviene “crocifissa con il Cristo”(Gal 2,19), a somiglianza della vita del poverello d’Assisi, lo stigmatizzato della Verna. Lo stesso Padre Pio dirà poi a proposito della sua vestizione:”Se si sapesse che straccio di abito indossai nel 1903... Eppure nessun abito mi pareva più bello di quello”. Secondo un’antichissima consuetudine, per rendere ancora più netto il distacco dal mondo, gli viene cambiato anche il nome: da questo momento Francesco Forgione diventa fra Pio da Pietrelcina. Un nome che forse gli viene suggerito dalla sua devozione verso il santo martire il cui corpo è custodito nella Chiesa di Sant’Anna a Pietrelcina. L’ambiente dove fra Pio trascorre il noviziato è di una povertà estrema. Una cella povera e nuda, il letto duro su cui si dorme vestiti, il cibo scarso e rustico, il convento freddo e gelido d’inverno, il sonno interrotto a mezzanotte per la preghiera notturna; l’andare sempre a piedi nudi con i sandali; fare la “disciplina” tre volte la settimana (cioè flagellarsi sulle nude carni, pensando alla passione di Gesù); digiunare per tre Quaresime, oltre a tutti i venerdì dell’anno; fare ogni giorno diverse ore di preghiera in comune e dedicare molto tempo alla preghiera personale; osservare il silenzio perpetuo, salvo il breve tempo della ricreazione in comune; andare sempre con gli occhi bassi in convento e fuori: tutte queste norme e pratiche di austerità riempiono la vita dei giovani novizi che devono lasciarsi forgiare dal loro maestro spirituale nel rinnegare l’uomo vecchio (Rm 6,6) dentro di sé e lasciarsi ricreare nell’uomo nuovo dal dinamismo dello Spirito. Il maestro dei novizi è chiaramente colpito dall’impegno di perfezione di fra Pio da Pietrelcina. Ai suoi occhi il giovane fraticello è un <modello di religioso.   Ciò significa che ogni norma anche minima della vita di novizio è da lui osservata con fedeltà pura e integra. All’ombra del convento di Morcone, fra Pio percorre i primi passi che lo porteranno poi alle grandi altezze della mistica. Qui,  fra Pio da Pietrelcina cerca di vivere la regola francescana. Così egli pratica, ad esempio, l’andare sempre con gli occhi bassi. Persino quando la mamma lo va a trovare e gli porta i dolci che a lui piacciono tanto,  se ne sta con gli occhi bassi e con le mani infilate nelle maniche.La mamma ci rimane male e se ne va con il cuore amareggiato. “Perché - si domanda - Francesco si comporta in quel modo. Se avessi saputo che si fosse comportanto in questo modo non sarei proprio venuta a Morcone”. Tornata a Pietrelcina mamma Peppa racconta ogni cosa a papà Grazio, tornato da poco dall’America. Al sentire queste cose, Grazio decide di partire per Morcone e prendersi Francesco, prima che nel convento si rovini la salute, magari fino a “scimunirsi”. E quando si presenta al convento di Morcone, ci vuole del bello e del buono per fargli capire che fra Pio aveva avuto questo atteggiamento con la mamma solo per osservare fedelmente la disciplina del noviziato, e non perché stesse male in salute o si stesse “scimunendo”. In seguito, ricordando quell’incontro con i genitori, Padre Pio dirà: “Mi era proibito parlare e alzare gli occhi verso i familiari senza il permesso del maestro, e io obbedivo. I miei, invece, pensavano che io mi fossi scimunito... Io avrei tanto voluto gettarmi al loro collo per abbracciarli”. Fra Pio da Pietrelcina termina l’anno di noviziato il 22 gennaio del 1904. Durante una cerimonia solenne, alla quale assistono mamma Peppa e altri parenti, fa la professione semplice, insieme ad altri compagni. Tre giorni dopo i neo professi lasciano il convento di Morcone per trasferirsi in quello di  SANT’ELIA A PIANISI dove riprendono gli studi. Dopo il noviziato fra Pio riprende gli studi per la preparazione al sacerdozio. Viene mandato, in un primo tempo, nel convento di Sant’Elia a Pianisi.. E qui, in terra Molisana, si intensificano le visioni celesti. Gradualmente, mentre il giovane frate approfondisce gli studi teologici e cresce nella vita ascetica, crescono anche i fenomeni carismatici. Al suo confessore, Padre Agostino, che in una lettera gli aveva chiesto, da quando tempo Gesù aveva cominciato a favorirlo delle sue visioni celesti, Il 10 ottobre del 1915 Padre Pio risponderà:”Se male non mi appongo, queste dovettero incominciare non molto dopo il noviziato”. Nell’ottobre del 1905 Padre Pio si trasferisce con altri confratelli, che si preparano al sacerdozio, nel convento di   SAN MARCO LA CATOLA in provincia di Foggia. Qui conosce colui che sarà il suo principale direttore spirituale: Padre Benedetto di San Marco in Lamis.  Intanto la salute del giovane frate va peggiorando. La tosse e i dolori al petto lo assillano continuamente. Si pensa che sia malato di Tisi. E allora, alla fine del 1906, i superiori, preoccupati per lui, decidono di mandarlo a Pietrelcina speranzosi che l’aria del paese natio lo aiuti a ristabilirsi. Anche negli anni successivi, fra Pio farà spesso ritorno alla sua amata Pietrelcina. E, ogni volta che   tornerà nel paese natio, si rimetterà  in salute. Ma, appena tornerà in convento, le sofferenze di prima si ripresenteranno puntualmente. La domenica del 27 gennaio del 1907, a  SANT’ELIA A PIANISI fra Pio, quasi ventenne, Fra Pio emette la solenne professione religiosa. Il 16 aprile dello stesso anno viene a Benevento e si presenta al distretto militare per la visita di leva. I medici non riscontrano in lui alcuna patologia, dichiarandolo abile al servizio di leva. Nell’autunno del 1907 Grazio Forgione, papà di fra Pio, viene invitato a venire a prende-re il figlio nel convento perché “sono quindici giorni che non mangia nulla”. Si sospetta che abbia la Tisi. Alla richiesta dei frati, Grazio risponde:”Se deve morire, è meglio che muore a casa sua”. Fra Pio è così debole che viene aiutato da due frati per vestirsi e scendere giù dalla cella. Temendo fortemente per la salute del figlio, benché sia povero, decide di prendere una carrozza per raggiungere la vicina stazione. Compra due biglietti di prima classe per far viaggiare il figlio in treno comodamente e, giunti a Pietrelcina, prende ancora una carrozza per arrivare fino al paese. Appena giunti al borgo, fra Pio recupera la salute e dice al padre:”Tu vai pure avanti. Io scendo qui e vado a salutare mia sorella Felicita”. Grazio prosegue stupito per la trasformazione repentina del figlio e arrivato a casa, alla moglie che gli chiede di fra Pio, risponde:”Viene appresso”. Poco dopo entra il giovane Fra Pio e chiede a Peppa: “Mamma, che fai per cena?”, abbracciandola teneramente. “Rape”, risponde Peppa. “Stasera allora fai la pietanza mia. Sono quindici giorni che non mangio. Ho una gran fame”. Ed a tavola, dopo aver mangiato la porzione di tutti e tre, conclude:”Oggi ho riparato per tutti i quindici giorni”. Ancora una volta Pietrelcina ha trasformato fra Pio ridandogli quella buona salute che altrove egli non riesce ad avere. Durante il secondo anno del corso teologico, il 19 dicembre del 1908, fra Pio da Pietrelcina riceve gli ordini minori. Il 21 dicembre riceve a Benevento il suddiaconato. La malferma salute costringe il giovane frate a interrompere il corso regolare degli studi. I medici ed i superiori, sperando che il mutamento d’aria possa giovare al recupero della salute, lo inviano al paese natio verso la metà di maggio del 1909, dove, salvo brevi interruzioni, rimarrà fino al 17 febbraio 1916 lottando contro la misteriosa malattia che tormenta il suo fragile organismo. SACERDOTE E VITTIMA: Una cosa fra Pio brama con tutte le forze: diventare sacerdote. E tanto più lo desidera, quanto più sente la sua salute deperire. Egli ha saputo che, per gravi motivi di salute, l’ordinazione sacerdotale può essere anticipata a chi ne fa domanda. Favorito anche dai superiori che sono in forte apprensione per la sua salute, fra Pio inoltra la domanda di essere ordinato sacerdote in anticipo. Ottenuta una risposta favorevole, sostiene gli esami dell’ordinazione nella curia arcivescovile di Benevento e viene ammesso al sacerdozio. E finalmente, il 10 agosto del 1910, nel duomo di Benevento, presenti: la mamma, il fratello e don Salvatore Pannullo, arciprete di Pietrelcina, fra Pio viene consacrato sacerdote da mons. Paolo Schinosi. Manca Grazio Forgione, emigrato per la seconda volta in America, per far fronte alle necessità economiche della famiglia. Quattro giorni dopo, la vigilia dell’Assunta, Padre Pio canta la sua prima messa nella Chiesa di Pietrelcina, all’altare della Madonna della Libera. In questo giorno padre Pio scrive una breve preghiera che rappresenta un poco il suo programma di vita:”O Gesù, mio sospiro e mia vita, mentre oggi ti elevo in un mistero di amore, ti chiedo di poter essere per te un sacerdote santo e una vittima perfetta”. Ma quali sono i sentimenti del novello sacerdote Padre Pio da Pietrelcina in quei giorni? Lo possiamo arguire dalla lettera che egli, il 17 agosto del 1910, scrive al suo direttore spirituale Padre Benedetto da San Marco in Lamis:”Mio carissimo padre, per vari giorni sono stato un po’ male; forse la causa principale di ciò ne è stata la troppa commozione a cui lo spirito in questi giorni è andato soggetto....Il mio cuore è traboccante di gioia e si sente sempre più forte ad incontrare qualunque afflizione, qualora si tratta di piacere a Gesù...”. Il 4 settembre, sotto il peso delle sue sofferenze fisiche, così scrive a Padre Benedetto:”Oh sì, padre mio, quanto è buono Gesù con me! Oh! che preziosi momenti sono questi; è una felicità che non so a che paragonarla; è una felicità che quasi solo nelle afflizioni il Signore mi dà a gustare. ......amare e servire. Si, padre mio. Anche in mezzo a tante sofferenze, sono felice perché sembrami di sentire il mio cuore palpitare con quello di Gesù.”. Dopo l’ordinazione sacerdotale, Padre Pio resta a Pietrelcina per quasi sei anni. I primi anni di sacerdozio li trascorre nel suo paese, circondato dall’affetto dei suo cari e dei paesani. La sua malattia misteriosa lo costringe, ogni volta che i superiori lo mandano in qualche convento, a tornare a casa. Ed infatti è solo a Pietrelcina che egli riesce un poco a riprendersi in salute, ma non a riacquistare il totale benessere. Il 29 novembre del 1910, Padre Pio così scrive a Padre Benedetto: “Da vari giorni in qua mi sento assai più male colla salute. Ma ciò che in ispecial modo mi tormenta sono la tosse e i dolori di torace. La tosse poi è talmente forte ed insistente, massime nelle ore notturne, che poco manca da non spezzarsi il petto; e spesse volte per timore mi vado ripetendo l’atto di dolore”. E a Pietrelcina, abitando sulla torretta in vico Storto Valle, Padre Pio organizza la sua vita sacerdotale. Innanzitutto la preghiera che occupa molto tempo nelle sue giornate. Spesso si fa chiudere in Sant’Anna o nella parrocchia di Santa Maria degli Angeli, per restare solo in adorazione davanti a Gesù Sacramentato. Una volta il sacrestano giunge in chiesa e lo trova quasi svenuto, disteso per terra. Preoccupato, va dal parroco e gli dice che Padre Pio “è morto”. Don Salvatore Pannullo, che conosce molto bene Padre Pio, così risponde:”Non ti preoccupare: tu a mezzogiorno suona le campane e poi vai a mangiare a casa.....che il morto risuscita”. Il 29 marzo del 1911 così scrive Padre Pio a Padre Benedetto da San Marco in Lamis:”...ma ciò che più mi ferisce, padre mio, è il pensiero di Gesù sacramentato. Il cuore si sente come attratto da una forza superiore prima di unirsi a lui la mattina in sacramento. Ho tale fame e sete prima di riceverlo, che poco manca che non muoio di affanno. Ed appunto perché non posso non unirmi a Lui, e alle volte colla febbre addosso sono costretto ad andare a cibarmi delle sue carni”. Padre Pio collabora attivamente, nel ministero sacerdotale, con don Salvatore. Celebra le funzioni religiose e amministra i sacramenti. Confessa sia in Sant’Anna che in Santa Maria degli Angeli. Ma ha anche il tempo di studiare teologia, di curare la catechesi ai piccoli, sia a Pietrelcina che a Piana Romana, di vivere momenti di intimità con la sua famiglia, i parenti e gli amici, soprattutto la comunità del suo rione, il borgo “Castello”. Egli viene a sapere che don Domenico Tizzani, ex sacerdote ora spretato che era stato il suo primo professore, sta per morire e nessuno ha il coraggio di avvicinarsi a lui. La figliola, quasi disperata, lo vede passare davanti casa sua e lo chiama, chiedendogli di visitare il papà. Padre Pio entra, si trattiene con il suo ex maestro e lo riconcilia con l’Amore del Padre Celeste elargendogli la Grazia Divina, tra le lacrime di pentimento di Tizzani e della figlia, e la sua intensa commozione. PADRE PIO E LA MADONNA: Padre Pio e la Madonna. Non si può immaginare la vita del frate da Pietrelcina senza Maria. E la Madre di Dio tantissime volte si è manifestata a Lui, addirittura accompagnandolo all’altare durante la Santa Messa celebrata nella chiesetta di S.Anna. La Madonna della Libera, venerata nella chiesa parrocchiale di Pietrelcina, ha rappresentato indubbiamente il primo riferimento della devozione Mariana del piccolo Francesco Forgione. Un culto che è andato sempre più sviluppandosi negli anni fino a divenire espressione di uno straordinario affetto filiale. “A Madonnella nostra”, così Padre Pio chiamerà sempre teneramente la protettrice di Pietrelcina. Ma non è solo con questo titolo che Maria viene venerata da Padre Pio.  Anche la Madonna del Rosario di Pompei, e successivamente la Madonna delle Grazie di S.Giovanni Rotondo e la Madonna di Fatima, saranno al centro di un culto Mariano che riveste un ruolo peculiare nella spiritualità del frate francescano. Padre Pio ha seguito sempre con attenzione la Storia delle Apparizioni di Fatima. Quando la Santa Vergine apparve la prima volta a Lucia, Giacinta e Francesco a Cova da Iria, il giovane frate si trova a Foggia. E da S.Giovanni Rotondo segue attentamente l’evolversi delle apparizioni e soprattutto il messaggio che scaturisce da Fatima. Da questo momento un filo invisibile lega Fatima con S.Giovanni Rotondo. La stessa Armata Azzurra, movimento internazionale di preghiera provocato dai messaggi Mariani di Fatima, diverrà, insieme al suo fondatore, parte della famiglia spirituale di Padre Pio. E Padre Pio ama ed amerà sempre Fatima, con i suoi messaggi di preghiera, penitenza e riparazione. Nel 1959 giunge in Italia, per una Peregrinatio Mariae organizzata dal Comitato Nazionale Mariano, di cui fanno parte tra gli altri il compianto cardinale Lercaro e don Gabriele Amorth, il famoso esorcista, entrambi figli spirituali di Padre Pio. La statua della Madonna di Fatima arriva direttamente da Cova da Iria e in Italia viene portata a visitare tutti i capoluoghi di provincia, in ognuno dei quali  verrebbe accolta ed ospitata per un periodo che va da uno a tre giorni.     S.Giovanni Rotondo sembra quindi predestinata ad essere esclusa da questa Visita privilegiata. Ma Proprio la città di Benevento, per mezzo dell’arcivescovo mons. Calabria, rinuncia ad un giorno per permettere a Padre Pio di salutare l’immagine della Madonna di Fatima a cui egli è particolarmente legato. Misteriosamente, come per un Disegno Divino, appena il simulacro della Bianca Signora di Fatima mette piede sul suolo Italiano, Padre Pio cade ammalato, colpito da una grave pleurite essudativa che, protraendosi a lungo, dal 5 maggio gli proibisce di celebrare la Santa Messa. La sera del 27 luglio, egli annuncia l’inizio della novena “per la visita che la Mamma Celeste vuol farci” ed esorta a prepararvisi con cristiano rinnovamento. Per tutte le sere, richiama la gioia, la fortuna, e “la grazia tutta speciale” di questa visita invitando tutti ad accogliere degnamente l’immagine di Maria. La sera del 4 agosto, Padre Pio annuncia che “dalla visita della Mamma nostra” mancano poche ore, invitando ancora una volta i figli spirituali ed i fedeli a prepararsi degnamente a questo grande avvenimento Marianao. Infine, il giorno stesso dell’arrivo, esprime così la sua gioia incontenibile: “Fra pochi minuti la Mamma nostra è in casa nostra… Allarghiamo i nostri cuori”. LE STIGMATE E...L’ASSIMILAZIONE A CRISTO: Nella sua lunga permanenza nel paese natìo, Padre Pio vive in uno stato di grande sofferenza fisica e morale. Nessuno riesce a diagnosticare con esattezza la sua malattia. Sembra quasi che la provvidenza inchiodi il frate nella sua Pietrelcina, non volendo che viva la normale vita conventuale. E per gli stessi direttori spirituali, specialmente per padre Benedetto da San Marco in Lamis, la prolungata permanenza fuori del convento non è una cosa lodevole, insinuando addirittura  il sospetto di qualche insidia diabolica. Ed allorché  gli chiede: “Quando ti vedrò in convento?”,  Padre Pio così risponde, l’8 settembre del 1911: “Si figuri poi se è mio desiderio di ritornarmene in convento. Il maggiore dei sacrifici che ho fatto al Signore è stato appunto di non aver potuto vivere in convento”. Ma in questa lettera per la prima volta padre Pio accenna al dono della stimmate, avuto proprio a Piana Romana: “...mi trovo in campagna a respirare un po’ di aria più sana, dietro che ne ho sperimentato la miglioria.....Ieri sera poi mi è successo una cosa che io non so né spiegare né comprendere. In mezzo alla palma delle mani è apparso un po’ di rosso quasi quanto la forma di un centesimo, accompagnato anche da un forte e acuto dolore in mezzo a quel po’ di rosso. Questo dolore era più sensibile in mezzo alla mano sinistra, tanto che dura ancora. Anche sotto i piedi avverto un po’ di dolore. Questo fenomeno è quasi da un anno che si va ripetendo, però adesso per la prima volta glielo dico; perché mi sono fatto vincere sempre da quella maledetta vergogna. Anche adesso se sapesse quante violenza ho dovuto farmi per dirglielo! Molte cose avrei da dirle, ma mi viene meno la parola; solo le dico che i battiti del cuore, allorché mi trovo con Gesù sacramentato, sono molto forti”(Epistolario, I, p. 234). Ma alle sofferenze si aggiungono anche le tentazioni e le vessazioni da parte del demonio. Nella   lettera che scrive al suo affezionatissimo padre Agostino, il 18 gennaio del 1912,  così Padre Pio descrive la sua lotta con “Barbablù”, uno degli ironici appellativi che egli dà allo spirito del male:”Barbablù non si vuole dare per vinto. Ha preso quasi tutte le forme. Da vari giorni in qua mi viene a visitare assieme con altri suoi satelliti armati di bastoni e di ordigni di ferro e quello che è peggio sotto le proprie forme. Chi sa quante volte mi ha gittato dal letto trascinandomi per la stanza. Ma pazienza! Gesù, la Mammina, l’Angioletto, ed il padre San Francesco sono quasi sempre con me..”(Epistolario, I, p. 252). Sempre a Padre Agostino confida i profondi sentimenti di amore e di fusione del cuore con quello di Gesù. Lo fa il 21 marzo del 1912: “Ieri festività di San Giuseppe, Iddio solo sa quante dolcezze provai, massime dopo la messa, tanto che le sento ancora in me....La bocca sentiva tutta la dolcezza di quelle carni Immacolate del Figlio di Dio... Quanto mi rende allegro Gesù! Quanto è soave il suo spirito! Ma io mi confondo e non riesco a fare altro se non che piangere e ripetere: Gesù, cibo mio!...Gesù, amore nel cuore non ce ne ho più, tu sai che l’ho donato tutto a te; se vuoi più amore, prendi questo mio cuore e riempilo del tuo amore e poi comandami pure di amarti, che non mi rifiuterò; anzi te ne prego di farlo, io lo desidero”. E accennando ancora al dolore delle stigmate così lamenta:”Dal giovedì sera fino al sabato, come anche il martedì è una tragedia dolorosa per me. Il cuore, le mani ed i piedi sembrami che siano trapassati da una spada; tanto è il dolore che ne sento”(Epistolario, I, p. 265 s.). Il 2 aprile del 1912 padre Pio scrive a padre Agostino:”...son contento più che mai nel soffrire, e se non ascoltassi che la voce del cuore, chiederei a Gesù che mi desse tutte le tristezze degli uomini; ma io non lo fo, perché temo di essere troppo egoista, bramando per me la parte migliore: il dolore: Nel dolore Gesù è più vicino; egli guarda, è lui che viene a mendicare pene, lacrime...; Egli ne ha bisogno per le anime”(Epistolario, I, p. 270). LA FUSIONE DEI CUORI: La sofferenza, le vessazioni diaboliche, forgiano in Padre Pio non solo un carattere ed una tempra di ferro ma lo inducono ad abbandonarsi sempre più docilmente all’Amore di Dio. E qui il suo itinerario mistico è denso di soprannaturali consolazioni, come quella che descrive allo stesso padre Agostino il 18 aprile del 1912:”Finita la messa, mi trattenni con Gesù pel rendimento di grazie. Oh quanto fu soave il colloquio tenuto col paradiso in questa mattina! Fu tale che pur volendomi provare a voler dir tutto non lo potrei; vi furono cose che non possono tradursi in un linguaggio umano, senza perdere il loro senso profondo e celeste. Il cuore di Gesù ed il mio, permettetemi l’espressione, si fusero. Non erano più due i cuori che battevano, ma uno solo. Il mio cuore era scomparso, come una goccia d’acqua che si smarrisce in un mare. Gesù n’era il paradiso, il re. La gioia in me era sì intensa e sì profonda, che più non [mi] potei contenere; le lacrime più deliziose mi inondarono il volto”(Epistolario, I, p. 273). “LE DOLCEZZE E LA BELLEZZA DI MARIA” Non solo Gesù ma anche la Madonna concede a padre Pio straordinarie consolazioni. Specialmente quando arriva il mese di maggio, dedicato a Maria, il giovane sacerdote vive momenti di grande intensità nel suo filiale rapporto con la Madre di Dio. E una delle espressioni di questa tenerezza è certamente rappresentata dalla recita del santo rosario che padre Pio organizza, per il mese di maggio, a porta Madonnella, dove, davanti alla venerata immagine della Madonna Incoronata, raccoglie la gente semplice e genuinamente cristiana del suo borgo. Ma leggiamo come si esprime padre Pio il 1° maggio del 1912 in una lettera che scrive a padre Agostino: “Si, padre mio, questo mese come predica bene le dolcezze e la bellezza di Maria....Quante volte ho confidato a questa madre le penose ansie del mio cuore agitato! e quante volte mi ha consolato! Ma la mia riconoscenza quale fu?...Nelle maggiori afflizioni mi sembra di non aver più madre sulla terra; ma di averne una molto pietosa in cielo. Ma quante volte il muo cuore fu calmo, tutto quasi dimenticai; dimenticai quasi perfino i doveri di gratitudine verso questa benedetta mammina celeste!...Povera Mammina, quanto bene mi vuole. L’ho constatato di nuovo allo spuntare di questo bel mese. Con quanta cura mi ha ella accompagnato all’altare questa mattina. Mi è sembrato che ella non avesse altro a pensare se non a me solo col riempirmi il cuore tutto di santi affetti....Vorrei avere una voce sì forte per invitare i peccatori di tutto il mondo ad amare la Madonna”(Epistolario, I, p. 276). Il Signore lavora profondamente nell’anima di padre Pio, per prepararla al grande ministero sacerdotale di San Giovanni Rotondo. E se da una parte la sofferenza e le insidie di Satana percuotono ed indeboliscono fisicamente il giovane frate,   dall’altra che egli riceve da Dio straordinari doni mistici. Non solo apparizioni e visioni; ma anche impeti e trasporti d’amore, tocchi divini e piaghe d’amore.  Così scrive, il 26 agosto del 1912 a padre Agostino: “Sentite cosa mi accadde venerdì scorso. Me ne stavo in chiesa a farmene il rendimento di grazie per la messa, quando tutto ad un tratto mi sentii ferire il cuore da un dardo di fuoco si vivo ed ardente, che credetti morirne. Mi mancano le parole adatte per far comprendervi la intensità di questa fiamma: sono affatto impotente a potermi esprimere. Ci credete? L’anima, vittima di queste consolazioni, diventa muta. Mi sembrava che una forza invisibile m’immergesse tutto quanto nel fuoco... Dio mio, che fuoco! Quale dolcezza!”(Epistolario, I, p. 300). Spesso, e anche per disarmare il nemico delle anime, la corrispondenza tra padre Pio e padre Agostino è scritta in  francese e, qualche volta, addirittura in greco. Una volta padre Agostino chiede al suo figlio spirituale come ha imparato a scrivere in francese, giacché questa è una lingua che lui non tanto ama. La risposta di Padre Pio fa riferimento ad una frase del profeta Geremia:”Io non so’ parlare. Ma il Signore mi ha detto va ed annuncia”.  Ma nella lettera del 20 settembre del 1912, padre Pio esplicitamente spiega che è l’angelo custode che lo aiuta a rispondere alle lettere che padre Agostino gli scrive in francese: “I celesti personaggi non cessano di visitarmi e farmi pregustare l’ebbrezza dei beati. E se la missione del nostro angelo custode è grande, quella del mio è di certo più grande, dovendomi fare anche da maestro nella spiega di altre lingue”(Epistolario, I, p. 304). Ma l’angelo custode non è solo l’interprete di padre Pio. Gli è amico, consigliere. Accorre in suo soccorso quando viene assalito dal demonio. Eppure un giorno egli si fa desiderare, si fa invocare ma non accorre se non quando la lotta è terminata ed il Padre sfinito. Lo confida padre Pio il 5 novembre a padre Agostino: “Non vi dico poi, in che modo, mi vanno percotendo quei disgraziati. Certe volte mi sento presso a morire. Sabato mi sembrò che mi volessero proprio finire, e non sapevo più a qual santo votarmi; mi rivolgo al mio angelo e dopo d’essersi fatto aspettare per un pezzo eccolo aleggiarmi intorno e con la sua angelica voce cantava inni alla divina maestà. Successe una di quelle solite scenate; lo sgridai aspramente d’essersi fatto così lungamente aspettare, mentre io non avevo mancato di chiamarlo in mio soccorso; per castigarlo non volevo guardarlo in viso, volevo allontanarmi, volevo sfuggirlo: ma egli poverino mi raggiunge quasi piangendo, mi acciuffa, finché sollevato lo sguardo, lo fissai in volto e lo trovai tutto spiacente”(Epistolario, I, p. 311). A questo punto l’angelo, dolcissimo, così risponde a padre Pio:”...Ti sono sempre vicino, mio diletto giovine,...io m’aggiro sempre a te d’intorno con quell’affetto che suscitò la tua ricompensa verso il diletto del tuo cuore; questo mio affetto per te non si spegnerà neppure con la tua vita...”(Idem). Il contatto epistolare di Padre Pio con padre Agostino da San Marco in Lamis porta molti benefici alla sua vita spirituale. Ecco perché il diavolo tenta più volte ed in vari modi di impedire a padre Pio di leggere le lettere che gli scrive il suo amico e direttore spirituale. 18 novembre 1912: “L’arciprete, reso consapevole della battaglia di quegl’impuri apostati, intorno a ciò che riguarda le vostre lettere, mi consigliò che alla prima vostra lettera che mi fosse pervenuta, l’andassi ad aprire da lui. Così feci nel ricevere la vostra ultima. Ma aperta che l’ebbimo la trovammo tutta imbrattata d’inchiostro. Sarà stata anche questa una vendetta di barbablù? Non posso mai credere che così me l’abbiate spedita, anche perché vi è nota la mia cecozienza, (cioè l’indebolimento della vista n.d.r.). Le lettere scritte ci sembrano in principio illeggibili, ma dietro che vi ponemmo sopra il crocifisso si fece un po’ di luce tanto da potersi leggere, sebbene a stento. Questa lettera è ben conservata”(Epistolario, I, p. 315). Ma cosa aveva scritto padre Agostino, in questa lettera scritta il 6 novembre, da provocare questa nuova strategia diabolica? Innanzitutto la lettera è scritta in francese, lingua utilizzata dal direttore spirituale per controbattere in qualche modo le insidie del demonio. L’abbiamo tradotta in italiano per cercare di capire il perché di tanto livore verso di essa. Questo è il suo contenuto:  “E’ con piacere che apprendo la nuova fase della guerra che ti fa continuamente il nostro brutto nemico: non aver paura di lui, perché sarà sempre vinto. Non importa se viene con la sua armata, perché tutta l’armata dell’inferno obbedisce al permesso di Dio. Conserva sempre la tua umiltà alla Divina volontà, perché il superbo tentatore trema per l’umiltà dei figli di Dio. Chiama sempre il tuo Angelo custode in tutte le tentazioni, perché egli è sempre vicino a te: Cosa potrà fare il tentatore ad un’anima che mette tutta la propria confidenza nel Buon Dio? La battaglia finirà e la Signora (Maria Santissima, n.d.r.) avrà il trionfo immortale. Se il Buon Dio lo vorrà, avvisami dell’ora del tuo trionfo completo, io vorrei trovarmi vicino a te nell’ora della tua morte. Non ti scordare mai la nostra promessa. Prega per me e secondo la mia intenzione. Dì a Gesù che mi dia la grazia di fare sempre la sua volontà, e questo mi basta. Io saluto di tutto cuore il tuo angioletto e, se ben vorrà, gli chiedo nel nome di Gesù di non permettere nell’avvenire che il nemico strappi le mie lettere, ma piuttosto che si consumi nella sua rabbia: ed è per questo che ti scrivo in francese: quando poi avrò il tempo, ti scriverò in greco. Domani, se Dio lo permetterà andrò a Foggia e proverò ad ottenere per te le 20 messe. Prega il buon Gesù, specialmente secondo la mia intenzione. Gioisci nel Signore: io te lo auguro sempre. Saluti da parte mia i tuoi, l’arciprete; Bacia il piccolo Francesco. Io mi dico sempre Tuo fratello in Gesù Cristo, Agostino cappuccino”(Epistolario, I, p. 312 s.). In calce a questa lettera imbrattata troviamo una dichiarazione di don Salvatore Pannullo, apposta anni dopo, il 25 agosto del 1919: “Attesto io qui sottoscritto, Arciprete di Pietrelcina, sotto la santità del giuramento, che la presente, aperta alla mia presenza, giunse così macchiata; ma era del tutto illeggibile. Messo di sopra il Crocifisso, aspersa l’acqua benedetta e recitati i santi esorcismi, si poté leggere come presentemente. Difatti, chiamata mia nipote, Grazia Pannullo insegnante, la lesse alla presenza mia e del Padre Pio, quanto fu praticato prima di essa chiamata. In fede Pietrelcina 25 agosto 1919”(idem). L’ASSIMILAZIONE A CRISTO: L’assimilazione di Padre Pio al Cristo procede gradualmente e profondamente con un lavorìo spirituale da parte di Dio. E forse una delle cause misteriose del perdurare del soggiorno del padre nella sua amata Pietrelcina si può riconoscere proprio nel Progetto di Dio che, nel silenzio della piccola località del Sannio, ha voluto stampare in questa umile e nascosta figura di frate l’impronta sublime del Figlio suo, con il segno esterno delle cinque piaghe. Pensare a quali e quanti sentimenti, padre Pio descrive a padre Agostino, il 3 dicembre del 1912, il suo abbandono amoroso nelle braccia del Cristo e i sublimi dialoghi che egli allaccia con il Figlio di Dio che si rende a Lui visibile aiuta a capire la valenza dell’autentica santità: “vorrei per un solo istante scoprirvi il mio petto per farvi vedere la piaga che il dolcissimo Gesù amorosamente vi ha aperto in questo mio cuore! Esso finalmente ha trovato un amante che si è talmente invaghito di lui, che non sa più inasprirlo... Ed allorché gli domando che cosa ho fatto per meritare tante consolazioni, lui mi sorride e mi va ripetendo che a tanto intercessore nulla si nega. Mi chiede in ricompensa solo amore; ma non lo debbo a lui forse questo per gratitudine?”(Epistolario, I, p. 316). E nella stesssa lettera padre Pio descrive, ancora una volta con calde ed affettuose parole d’amore, la sua sconfinata adorazione per Gesù sacramentato: “Egli si è talmente invaghito del mio cuore, che mi fa ardere tutto del suo fuoco divino, del suo fuoco d’amore. Che cos’è questo fuoco che mi investe tutto? Padre mio, se Gesù ci rende così felici in terra, che sarà nel cielo?!  Mi vado alle volte domandando se vi siano delle anime che non si sentono bruciare il petto dal fuoco divino, specialmente allorché si trovino dinanzi a lui in sacramento... Ho tanta confidenza in Gesù, che se anche vedessi l’inferno aperto dinanzi a me, mi trovassi sull’orlo dell’abisso, non diffiderei, non dispererei, confiderei in lui”(Epistolario, I, p. 317). IL RITORNO DEL PAPA’ E DEL FRATELLO MICHELE DALL’AMERICA: Intanto, con il ritorno dall’America di papà Grazio e del fratello Michele, avvenuto il 27 novembre, padre Pio vive giornate di serenità e di gioia causate proprio dall’affetto e dall’intimità della sua famiglia ricomposta. Sono quelle consolazioni che il Signore elargisce nel mentre permette che gli assalti del maligno e i dolori che lo affliggono lo rendano sempre più “Alter Christus”, “Altro Cristo”. Lo accenna egli stesso, rappresentando in modo figurato il lavoro di Dio su di lui, mentre scrive a padre Agostino, il 18 gennaio del 1913:”Con ripetuti colpi di salutare scalpello e con diligente ripulitura soglio preparare le pietre che dovranno entrare nella composizione dell’eterno edificio”. Queste parole mi va ripetendo Gesù ogni qualvolta mi regala nuove croci. Ora si, mi sembra che le parole di nostro Signore, che mi sembravano tante oscure:”l’amore si conosce nel dolore, e questo lo sentirai nel corpo”, si vanno facendo luce nel mio intelletto”(Epistolario, I, p. 329 s.). Il 12 marzo del 1913 padre Pio rivela a padre Agostino quanto Gesù gli aveva confidato in un celeste colloquio: “Con quanta ingratitudine viene ripagato il mio amore dagli uomini! Sarei stato meno offeso da costoro se l’avessi amato di meno. Mio padre non vuole più sopportarli. Io vorrei cessare di amarli, ma...(e qui Gesù si tacque e sospirava, e dopo riprese), ma ahimè! Il mio cuore è fatto per amare! Gli uomini vili e fiacchi non si fanno nessuna violenza per vincersi nelle tentazioni, che anzi si dilettano nelle loro iniquità.... - Figlio mio, soggiunse Gesù - ho bisogno delle vittime per calmare l’ira giusta e divina del Padre mio; rinnovami il sacrificio di tutto te stesso e fallo senza riservatezza alcuna”(Epistolario, I, p. 342). Il Padre sente fortemente l’esigenza di vivere pienamente il suo sacerdozio. Ma per farlo ha bisogno anche di confessare.  Ecco perché il 15 marzo, dopo un considerevole lasso di tempo, scrive a padre Benedetto: “...Vengo infine a chiedervi il permesso di ascoltare le confessioni, almeno quelle degli infermi. State tranquillo che nessun male arrecherà alla mia salute...”(Epistolario, I, p. 345). Ma l’autorizzazione non arriva cagionando ulteriori pene morali al frate. Sono le sofferenze che lo purificano e lo avvicinano inesorabilmente all’Amore di Cristo. Continuano intanto i suoi colloqui soprannaturali con il Signore. E in una lettera datata 7 aprile 1913 manifesta al caro padre Agostino una grande visione avvenuta, nella sua abitazione di via Santa Maria degli Angeli, la mattina del 28 marzo: “Venerdì mattina ero ancora a letto, quando mi apparve Gesù. Era tutto malconcio sfigurato. Egli mi mostrò una grande moltitudine di sacerdoti regolari e secolari, fra i quali diversi dignitari ecclesiastici; di questi, chi stava celebrando, chi si stava parando e chi si stava svestendo delle sacre vesti. La vista di Gesù in angustie mi dava molta pena, perciò volli domandargli perché soffrisse tanto. Nessuna risposta n’ebbi. Però il suo sguardo si riportò verso quei sacerdoti; ma poco dopo, quasi inorridito e come se fosse stanco di guardare, ritirò lo sguardo ed allorché lo rialzò verso di me, con grande mio orrore, osservai due lagrime che gli solcavano le gote. Si allontanò da quella turba di sacerdoti con una grande espressione di disgusto sul volto, gridando: “Macellai!”. E rivolto a me disse: “Figlio mio, non credere che la mia agonia sia stata di tre ore, no; io sarò per cagione delle anime da me più beneficate, in agonia sino alla fine del mondo. Durante il tempo della mia agonia, figlio mio, non bisogna dormire. L’anima mia va in cerca di qualche goccia di pietà umana, ma ohimé mi lasciano solo sotto il penso dell’indifferenza. L’ingratitudine ed il sonno dei miei ministri mi rendono più gravosa l’agonia. Ohimé come corrispondono male al mio amore! Ciò che più mi affligge è che costoro al loro indifferentismo, aggiungono il loro disprezzo, l’incredulità... Scrivi al padre tuo e narragli ciò che hai visto ed hai sentito da me questa mattina”(Epistolario, I, p. 350 s.). Con l’avvento della Primavera, Il mese di maggio del 1913 porta nel cuore di Padre Pio un rinnovato entusiasmo per la vita. Ma maggio è il mese di Maria ed è il tempo privilegiato per pensare di più a Lei. Padre Pio non si fa sfuggire questa occasione ed organizza spesso un gruppo di preghiera davanti alla venerata immagine su maiolica della Madonna Incoronata a porta Madonnella. Qui il pomeriggio tutto il popolo del quartiere Castello si riunisce in semplicità ed amore per onorare Maria con la recita del Santo rosario. Padre Pio anima questo gruppo con l’amore e la gioia di un figlio che vuole offrire un serto di fiori alla Mamma. Sentite come esprime, a padre Agostino, il 6 maggio il suo amore a Gesù e Maria: “Questa cara Mammina seguita a prestarmi premurosamente le sue materne cure, specialmente in questo mese. Le di Lei cure verso di me toccano la ricercatezza. Soltanto allorché le faccio cenno a quella grazia, che voi già sapete, il suo celeste volto si contrae tutto: si rattrista e con solennità mi rinnova il divieto”. La grazia a cui fa cenno padre Pio e che viene per ora rifiutata dalla Madonna fa riferimento a quella che è ormai una spina nel fianco di padre Pio: il desiderio del ritorno nella vita di convento. Ma è chiaro che il piano di Dio per ora non combacia con i propositi del frate. Il Signore vuole che Padre Pio continui a vivere nella sua Pietrelcina. Solo così lo può plasmare, forgiare, trasformare nell’immagine fedele del Cristo. E solo quando questo processo di trasformazione sarà giunto a buon punto, Dio gli permetterà di lasciare la sua amata Pietrelcina per vivere pienamente la vita di conventuale Cappuccino. Intanto, con la buona stagione Padre Pio vive le sue giornate in semplicità e pace spirituale. Dopo aver celebrato la Messa presso la chiesetta di S.Anna, se le forze glielo consentono, si avvia per Piana Romana. Si ferma a salutare come al solito, a porta Madonnella, il calzolaio Donato Faiella, che conosce più di qualunque altro i suoi piedi, avendogli fatto un buco sul fondo di una scarpa per permettergli di non soffrire per la presenza di una piaga.  Poi scende giù e si ferma al pozzo del rione Pantaniello, dove saluta, come faceva da bambino, qualche conoscente, e    via per il sentiero di campagna che verrà poi chiamato via del Rosario. Per la strada padre Pio intona in semplicità ed amore alla Madonna la recita della corona che Lei tanto ama e predilige. La stradina di campagna diventa sempre più scomoda: i sassi appuntiti lo fanno soffrire, ma con amore, unendo alla preghiera la sua sofferenza fisica. Il suo sguardo è tutto orientato al cielo ma anche permeato da un delicato sentimento familiare. Sa che a Piana Romana troverà il padre Grazio, la madre Peppa, il fratello, i cugini, il compare Mercurio, e tanti amici. Arriva al ponte Pantaniello, posto sul torrente Quadrielli, dove più volte ha visto in faccia “quei brutti ceffi”. Inizia quindi l’erta decisiva per Piana Romana. La via si fa più solitaria, selvaggia, ma più pregna di preghiera. Finalmente arriva a Piana Romana e trova i suoi familiari impegnati ai lavori dei campi. Un saluto a tutti, un bacio alla mamma, una boccata d’aria pura, quattro passi e via a sedersi su uno spuntone di roccia a godersi il sole della primavera inoltrata e contemplare, attraverso le bellezze del Creato, la magnificenza e la bellezza del Creatore. Poi quando il sole comincia a battere sulla testa, Padre Pio si rifugia sotto la capanna di paglia costruita dai cugini ai piedi del celebre Olmo delle stigmate. E qui la contemplazione visiva della natura cede il posto allo studio delle Scienze Sacre, alla lettura della vita dei santi, alla meditazione, alla contemplazione dell’Amore di Dio, all’incontro visibile con Gesù, Maria ed altri personaggi soprannaturali. Il frugale pranzo consumato nella masseria dei Forgione, viene seguito da un po’ di riposo, raccomandato a Padre Pio dalla mamma, attenta e sensibile alla salute del figlio. Quanti sentimenti meravigliosi si intrecciano tra Peppa e questo suo figlio tralucente di Santità che già il popolo chiama con l’appellativo di “O Santariello”. Un’amore sconfinato, quello di Padre Pio verso la mamma, la cui misura si intuirà molti anni dopo a S.Giovanni Rotondo, allorché con calde lacrime piangerà, quasi come un bambino, la morte di mamma Peppa invocando:”Mamma, mamma mia”. Ed al sindaco di San Giovanni Rotondo, Francesco Morcaldi, che gli dirà: “Padre, non ci avete insegnato voi stesso che il dolore non deve essere che un’espressione dell’amore e che dobbiamo offrirlo a Dio? Perché dunque piangete in modo così straziante? Proprio voi che parlate tanto di sofferenza piangete...” il Padre, divenuto molto serio risponderà: “Sono lacrime d’amore, nient’altro che d’amore”. Padre Pio ha un differente contatto con i due direttori spirituali. Con padre Benedetto vive un rapporto non tanto facile perché, nella duplice veste di direttore spirituale e ministro provinciale, egli esige che il frate torni alla vita conventuale, mentre Padre Pio è costretto dalle condizioni di salute a soggiornare a Pietrelcina.     Le lettere tra i due sono meno frequenti rispetto a quelle tra Padre Pio e Padre Agostino.  Ecco come padre Benedetto esorta ancora una volta padre Pio, il 17 dicembre del 1913, a ritornare nella vita religiosa comunitaria:”E tu quando vorrai tornare nel chiostro? Oramai l’esperienza dell’aria nativa è stata fatta e si è visto che mantiene e non guarisce. Ripeto quel che ti dissi a voce, cioè di non trovar nulla di straordinario e di contrario al divino volere e allo stesso diritto di natura il tornare alla Religione anche con la persuasione certa di aggravarti. Anzi contrario all’uno ed all’altro mi sembra lo starsene sì lungamente fuori del chiostro per motivo di salute...”.  In risposta a questa lettera, il 20 dicembre, Padre Pio formula gli auguri natalizi a padre Benedetto. Ed a proposito del desiderio di vederlo in convento così esprime il suo stato d’animo: “...voi potete immaginare con quanta gioia volerei in convento; ma poiché la mia malattia si va sempre accentuando e che a stento mi trascino, sarei di peso e di ingombro alla comunità, senza apportare nessun aiuto ed affrettando la mia fine... “(Epistolario, I). Con padre Agostino, invece, il rapporto epistolare è più diretto, affettuoso. Non solo da parte di padre Pio, ma anche da parte del suo ex professore di Teologia. Padre Pio introduce le sue lettere chiamandolo: “mio carissimo babbo”. E infatti padre Agostino è per il giovane frate di Pietrelcina un padre, un amico, un consigliere affettuoso. E’ lui a raccogliere, più di padre Benedetto, le testimonianze straordinarie del “Santariello”. E’ lui ad essergli vicino con il suo affetto e la sua direzione spirituale, perché padre Pio cammini spedito verso quella vita di perfezione sulla quale Dio lo chiama. Ed a padre Agostino, il 10 gennaio del 1914, il Frate di Pietrelcina apre il suo cuore prospettandogli il travaglio dovuto ad una scelta che lui non può prendere e che il superiore provinciale, padre Benedetto, richiede fermamente, e cioè lasciare Pietrelcina per tornare definitivamente al convento: “Il padre provinciale fin dallo scorso maggio mi diceva che il padre generale (dei cappuccini), dietro che lui gli aveva riferito tutto sul mio conto, rispose:”E’ meglio allora che si faccia prete chiedendo il breve”. Io volerei volentieri in convento, ma poiché tutte le prove sono state fatte e gli effetti vi sono ben noti e dietro ancora che la mia malattia si va sempre più accentuando, trascinandomi a stento, vedo che non potrei essere alla comunità se non di peso e di ingombro, senza apportare nessun aiuto ed affrettando la mia fine. Quindi tenendo presente la risposta data dal generale al mio riguardo, con strazio vivissimo dell’anima mia, mi decido a chiedere il breve, riconoscendo nella voce del superiore la voce di Dio. Voi caro padre, che tante volte siete stato posto a parte del mio interno, potrete in parte comprendere quale atroce strazio sente il mio cuore nell’essere costretto a dare il passo, ma la necessità me lo impone e la sventura così vuole per me. Sono persuaso poi che il padre provinciale interporrà presso Roma i suoi buoni uffici, ci riuscirà a farmi rimanere coll’abito del serafico padre”. Quindi padre Pio si trova ad un punto critico: sta per lasciare l’abito francescano per essere un semplice sacerdote secolare. Una situazione che verrà superata grazie anche al Breve “durante infirmitate e retento habitu”, cioè il permesso papale di restare a Pietrelcina pur conservando lo stato di religioso cappuccino.  RAFFAELINA CERASE: Intanto, nei rapporti epistolari con padre Pio, padre Agostino da San Marco in Lamis accenna spesso a “due anime” che si affidano alle preghiere del frate di Pietrelcina. Queste due anime avranno un ruolo molto importante nell’epistolario di padre Pio e saranno tra le sue prime figlie spirituali. Si tratta di Raffaelina Cerase e sua sorella Giovina. E’ lo stesso padre Agostino, confessore e direttore spirituale delle due sorelle, a preannunciare al suo caro Padre Pio l’imminente inizio di un contatto epistolare da parte di Raffaelina. Lo fa con una lettera, scritta in francese come tante altre e datata 20 marzo 1914: “Una delle due anime, propriamente quella privilegiata, fra pochi giorni scriverà direttamente a te. Mi sembra che Gesù lo vuole. Quest’anima (forse tu lo sai) si trova nell’oscurità spirituale. Io credo che Gesù vuole illuminarla per mezzo di te. Io ti prego di rispondere subito (se il buon Dio te lo permetterà) a tutte le lettere che Ella ti invierà”. La corrispondenza di padre Pio con Raffaelina Cerase occuperà un posto importante non solo nell’epistolario del frate cappuccino ma farà nascere un’amicizia che, permessa e voluta da Dio, provocherà il suo ritorno definitivo nella vita conventuale. Le manifestazioni mistiche in padre Pio vengono seguite con grande rispetto dai superiori provinciali dell’ordine dei cappuccini. Anzi più di una volta essi chiedono al padre di interpellare il Signore in riguardo alla provincia a cui appartiene padre Pio. Padre Benedetto da San Marco in Lamis, ministro provinciale dei cappuccini di Foggia, il 21 marzo del ‘14 chiede tra l’altro: “...Voglio dunque che mi scrivi lungo ed oltre alle notizie tue interpella il Signore affinché per la sua santa e divina bontà si degni far conoscere quel che desidera da me e dalla provincia. Dimmi tutto per santa ubbidienza e distintamente”. La risposta di padre Pio, datata 26 marzo 1914, non tarda ad arrivare. Ma, l’attesa di risposte da parte del Signore, sul governo della provincia, rimane disillusa. E’ lo stesso padre Pio a spiegare il perché: ”Ho pregato e prego sempre secondo tutti quei fini che voi desiderate; ma mi astengo di fare domande a nostro Signore a fine di averne una risposta, avendomelo Egli stesso vietato. Se per l’addietro il Signore permetteva, anzi voleva che gli domandassi in questa e in quella circostanza, qual fosse il suo volere, da un pezzo però riprova questo vecchio modo di agire. “Questo modo ben si confà, ebbe a dirmi una volta nostro Signore, per quelli che sono come ‘parvoli nelle mie vie  ed io voglio che tu esci finalmente da questo stato di fanciullezza”. Me nella stessa lettera padre Pio apre il suo cuore a padre Benedetto, rivelandogli la profonda esperienza mistica che lo avvolge nella preghiera. Lo fa con parole toccanti, pregne di intenso amore e di dolci parole che esprimono il suo straordinario rapporto di Amore con Dio: “Appena mi metto a pregare tosto mi sento il cuore come invaso da una fiamma di un vivo amore; questa fiamma non ha nulla a che vedere con qualsiasi fiamma di questo basso mondo. E’ una fiamma delicata ed assai dolce che strugge e non dà pena alcuna. Dessa è sì dolce e sì deliziosa che lo spirito ne prova tale compiacenza, e ne rimane sazio in tal guisa da non perderne il desiderio; ed oh Dio! cosa al sommo meravigliosa per me e che forse non arriverò mai a comprendere se non nella celeste patria. Questo desiderio lungi dal togliere la sazietà dell’anima la va sempre più raffinando. Il godimento che sente l’anima là nel suo centro piuttosto che rimanere diminuito dal desiderio, rimane sempre più perfezionato..... L’anima posta dal Signore in tale stato, arricchita da tante celesti cognizioni dovrebbe essere più loquace; eppure no, essa è diventata quasi muta. Non saprei se questo sia un fenomeno che si avvera in me solo. Con termini assai generici, ed il più delle volte vuoti anche di senso, riesce l’anima ad esprimere quella particella di ciò che in lei lo sposo dell’anima va operando...”. Intanto, per mezzo di padre Agostino suo confessore e direttore spirituale, Raffaelina Cerase, terziaria francescana ammalata e confinata in casa, da Foggia si mette in contatto epistolare con Padre Pio. Nasce, con questo dialogo, un sodalizio spirituale che darà molti frutti a questa santa donna toccata grandemente nella sofferenza sia attraverso i lutti e le discordie in famiglia, che a causa della sua stessa infermità fisica. Nella prima lettera scritta padre Pio, il 24 marzo, così conclude la sua presentazione: ”Supplicate, ripeto, fino alla noia, insistete, parlate assai a Gesù. Ditegli che le due anime (specie la mia) aspettano la sua grazia, le due pietre isolate nel mondo, le due foglie sbattute dall’uragano aspettano la sua mano che le metta finalmente al posto di cui Egli le destina; aspettano e sperano...”(Epistolario, II).  A questa lettera padre Pio risponde il 29 marzo (domenica di passione): “Oh! Figliuola dilettissima di Gesù, se fossimo in mano nostra, cadremmo sempre e mai resteremmo in piedi; e perciò umiliatevi al pensiero dolcissimo che state sulle braccia divine di Gesù, che è il più buono dei padri, come un pargoletto su quelle materne e dormite tranquilla, certa di essere guidata per dove troverete il migliore vantaggio. Che timore si può avere l’essere accertati di stare fra sì soavi braccia quando tutto il nostro essere è consacrato a Dio?!”(Epistolario II). Nel giugno del 1914 Padre Pio viene mandato a Morcone. Ma il soggiorno sarà breve a causa del riacutizzarsi di tutti i suoi mali. Quale mistero si nasconde dietro queste coincidenze? Appena viene mandato in convento, il frate si ammala seriamente. Torna all’aria nativa e riacquista le sue forze. Noi ripetiamo quanto già abbiamo affermato. E cioè che il Signore lo voglia ancora a Pietrelcina per forgiarlo completamente secondo le sue sembianze fisiche e spirituali. E’ lo stesso padre Pio, il 18 giugno a confidare a padre Agostino i suo affanni: “In cinque giorni che sono stato a Morcone mi sono ridotto in uno stato assai compassionevole. Questa nuova ricaduta, mio caro padre, mi ha scombussolato tutta la persona, e quello che più ne rimane danneggiato è il petto. Esso mi fa spasimare continuamente; mi tiene in una prolungata agonia. In certi momenti è tale la pena che desso mi cagiona, che sembrami come se la vita si arrestasse...Sia fatta la volontà del Signore, che tutto quello che ordina è giusto!”(Epistolario I). I FENOMENI MISTICI: Per la prima volta padre Pio accenna ad uno dei fenomeni straordinari che lo accompagneranno per tutta la sua vita. Lo fa scrivendo a Raffaelina Cerase, sua figlia spirituale, il 10 ottobre del 1914: ”Il mio amore per voi in Cristo Gesù, Benedetto sia Iddio, Padre del nostro Signore Gesù Cristo, Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione, il quale, nella sua bontà, ha permesso in questi giorni che vi visitassi in ispirito. Niente voi avete presentito di tal visita? Piaccia a Gesù, il quale mi consola in ogni afflizione, consolare, per mio mezzo, ancora voi da ogni tribolazione”. Questo carisma della visita in ispirito, di cui è dotato padre PIo, non sembra ancora essere una vera bilocazione. Lo dimostra la risposta di Raffaelina, datata 21 ottobre del 1914: “ E la visita in ispirito che vi degnaste farmi - quanto siete buono con questa figlia ingrata, immeritevole di tutto! - in quale giorno, in quale ora accadde? Abbiate la pazienza di indicarmelo - non lo dimenticate -; povera me, di nulla mi accorsi”. Questa lettera giunge un po’ in ritardo a padre Pio che, il 25 ottobre, con grande umiltà e modestia, definisce un dono del Signore le sue visite in ispirito: “Nessun ringraziamento mi è dovuto per la visita che il Signore mi accordò di farvi in ispirito: ma i vostri ringraziamenti e le vostre lodi siano rivolte a Dio solo. Mi chiedete pure l’ora e il giorno nel quale questa visita avvenne. Provo grande ripugnanza nel manifestarvi ciò, ma per non contristarvi fo tacere quel che mi ripugna. Se non sbaglio una simile visita avvenne il giorno 4 ottobre, festività del serafico padre san Francesco, e nelle prime ore del seguente. Non posso dirvi altro di tal visita; solo vi dico che fu molto lunga. Vi scongiuro poi che di tal visita non ne facciate parola con nessun essere vivente di questo mondo...”. Si prepara, intanto, per padre Pio il permesso per farlo restare fuori convento, ma vestendo l’abito cappuccino. Perciò riceva una lettera da Padre Benedetto, datata 14 dicembre 1914: “Caro padre Pio, dovendo io regolare la vostra posizione col reverendissimo padre generale, egli mi ha suggerito che si ottenga il breve durante necessitate e retento habitu. Ma è indispensabile che chiediate all’arcivescovo di Benevento un attestato in cui dichiari che vuol concedervi l’altare o in altri termini apparteniate provvisoriamente al clero di Pietrelcina. Conviene che l’istanza sia accompagnata da una commendatizia dell’arciprete. L’attestato lo manderete a me. Dispiaciutissimo di non potervi ancora vedere tra noi vi benedico ed auguro da Gesù Bambino ogni eletta grazia”. Per capire il travaglio interiore che attanaglia padre Pio, bisogna leggere alcune righe della lettera che il 19 dicembre del 1914 invia al suo carissimo padre Agostino mentre ancora una volta la malattia lo costringe a letto. Sofferenze fisiche e morali che mettono a dura prova la sua anima: “Dal letto vi scrivo queste poche righe per non farvi passare le feste di Gesù Bambino senza augurarvele piene delle più elette grazie. In questi giorni deporrò ai piedi del Bambinello Gesù oltre le mie povere preghiere per voi, ma ancora spargerò delle lacrime e gli offrirò tutte le amarezze che opprimono il mio cuore. Quale umiliazione per me, padre mio, nel vedermi quasi scisso dal serafico Ordine. Dolore talmente acuto che mi sopravvenne, nonostante che ero parato, non appena mi venne la lettera del provinciale che mi comunicava le decisioni prese.       Per le lacrime che versai mi cagionarono tanto male anche alla sanità, che fui costretto e mettermi a letto, dove attualmente mi trovo ancora. Sia fatta la divina volontà...”. Ma nella risposta di padre Agostino (21/12/914) c’è tutta la consolazione del padre e dell’amico che lo rassicura sulla sua permanenza nei Cappuccini: “Ti prego a non lasciarti prendere dal pensiero che tu sia come scisso dal nostro Ordine: questa mi sembra una tentazione. Il generale ha visto la divina volontà ed egli ti accorda il breve ad tempus e con l’abito serafico: dunque tu sei sempre nostro e più del serafico padre...Nell’affetto di Gesù Bambino t’abbraccia il tuo affezionatissimo fra Agostino cappuccino”. Le grandi sofferenze di padre Pio sono accompagnate da momenti in cui l’anima è presa da soave e grandissimo amore per Dio.Lo possiamo arguire da uno stralcio della lettera che il 24 gennaio 1915 padre Pio scrive al ministro Provinciale dei cappuccini: Padre Benedetto da San Marco in Lamis: “Sembrami come se tutte le ossa mi si scerpassero (strappassero). Sentomi, senza punto vederlo con gli occhi del corpo, ma ben vedendolo io con quelli dello spirito, immergermi da costui , con una punta bene affilata e quasi gettando fuoco, attraverso il cuore che lo approfonda fino alle viscere, indi a viva forza lo ritrae per poi di lì a poco ripetere l’operazione. Il tutto lascia, al moltiplicarsi di questi colpi, sempre maggiormente divampare l’anima di grandissimo amore di Dio. Il dolore intanto che producemi tal ferita, che da lui mi viene aperta, e la soavità che in pari tempo mi si fa sentire, sono così vivi che adombrarli mi torna impossibile. Ma, padre mio, detto dolore, come detta soavità sono del tutto spirituali, sebbene sia pur vero che non lascino anche il corpo di parteciparvi, anche in alto grado”. Intanto Padre Pio continua, anche su autorizzazione del direttore spirituale Padre Agostino e dei superiori, a recitare il santo rosario al posto dell’Ufficio Divino, obbligo cui sono legati tutti i sacerdoti. La sua vista lo esenta dalla recita del breviario quotidiano. E sarà la corona del rosario ad accompagnare padre Pio per tutta la sua vita spirituale. Il Rosario sarà per lui l’arma privilegiata per vincere le insidie diaboliche e il mezzo eccellente per ottenere da Dio, attraverso l’intercessione di Maria, innumerevoli Grazie. Scrivendo a padre Agostino, il 30 gennaio 1915, il frate accenna al desiderio di recitare l’Ufficio Divino:     “Riguardo alla recita del Divino ufficio, la vista, come vi dissi, altre volte mi è venuta. E se pur vi sia luogo a dispensa dall’ufficio potrebbero essere le mie condizioni eccezionali di salute. Quindi vi ripeto ciò che vi ho detto altre volte, mi rimetto al giudizio del superiore. A me manca persino il breviario, vedendomi giungere il breviario è segno che posso dirmelo”. Nello stesso giorno del 30 gennaio, padre Pio scrive a Raffaelina Cerase, invitandola a raffrontare il suo “Sì” con quello di Gesù nel Getsemani, prima di affrontare le ore della Passione: ”Considerate il fiat di Gesù nell’orto; quanto dovette riuscirgli di peso fino a sudare, e sudare sangue! Pronunziatelo anche voi questo fiat tanto nelle cose prospere, che nelle cose avverse; e non vi date pena e nè vi rompete la testa del come lo pronunziate. Si sa che nelle cose dure la natura rifugge la croce, ma non si può dire che l’anima non si sia sottomessa alla volontà di Dio quanto pur la vediamo, nonostante la forza che sente in contrario, venire alla pratica”. Come già si è detto in altre circostanze, padre Benedetto da San Marco in Lamis, ministro provinciale dei frati cappuccini, aveva inoltrato alla Santa Sede la petizione perché padre Pio avesse il permesso di portare l’abito religioso, pur rimanendo “fuori convento, per curare la propria salute, essendo questo l’unico mezzo che dà speranza di guarire. Il sommo pontefice, il 25 febbraio 1915, concede finalmente a Padre Pio “petitam facultatem manendi extra clausura durante necessitate, retento habitu regulari”. Detta facoltà viene comunicata a padre Benedetto il 1° marzo. Il giorno 7 scrive a padre Pio: “E’ venuto il breve durante infirmitate e retento habitu di permanere nel secolo. Dio mi conceda di vedervi tornare in religione”. Quindi, da questo momento e per circa un anno, la Chiesa Beneventana avrà il privilegio di avere Padre Pio tra i propri sacerdoti secolari. Ma il breve concesso dal Papa, più che allontanarlo dall’Ordine, lo aiuta a sentirsi sempre più profondamente unito ad esso. Con padre Benedetto il rapporto riprende ad essere più frequente. Ecco come si manifesta, il Frate di Pietrelcina, Il 18 marzo: “Padre, mi sia concesso sfogarmi con voi almeno: sono crocifisso d’amore! Non ne posso proprio più: l’è questo un cibo assai delicato per chi è avvezzo a cibi grossolani, ed è appunto questo che mi produce di continuo delle fortissime indigestioni spirituali, da crescere a tal punto da far gemere per vivissimo dolore ed amore insieme la povera anima. La meschinella non sa adattarsi a questo nuovo modo che tiene il Signore con Lei; ed ecco che il bacio ed il toccamento, direi così, sostanziale che questo amorosissimo padre celeste imprime sull’anima, le riesce ancora di estrema pena”. Il 25 marzo del 1915, festa dell’Annunciazione di Maria Santissima, Padre Pio manifesta alla sua diletta figlia spirituale, Raffaelina Cerase, gli stessi sentimenti che sette giorni prima aveva espresso a padre Benedetto. E lo fa con parole che esprimono una grande sofferenza e nel contempo un amore ardente verso il Signore: “Da parecchio tempo, dovete sapere, che è piaciuto a nostro Signore Gesù Cristo pormi in un’estrema malattia, più spirituale per altro che corporale. E’ una prova così alta che mi pone a giuocare il tutto per tutto. L’inferno si è scatenato tutto su di me. Vi sono dei momenti, nei quali mi sembra di morire; e veramente è un miracolo della misericordia divina se pur io continuo a vivere. Muoio in ogni istante: mi sento crocifisso di amore. Dovrebbe purtroppo riuscirmi di delizia, ma che volete, lo spirito mio è avvezzo ancora a cibi assai grossolani. Passo delle nottate specialmente in braccia ad un’estrema angoscia in vista della prova che mi pone a perdere il tutto per tutto”. TESORI SPIRITUALI: Nonostante le grandi sofferenze fisiche e morali dovute pure alla lotta che egli deve affrontare con le forze del male, padre Pio elargisce, nelle sue lettere alle figlie spirituali, autentici tesori di insegnamento cristiano. Sempre a Raffaelina Cerase egli scrive, martedì santo, 30 marzo del 1915: “Vivete tale che il Padre celeste possa gloriarsi di voi, come lo fa e lo è di tante anime elette al pari della vostra. Vivete in modo che in ogni istante possiate ripetere coll’apostolo San Paolo:[Siate miei imitatori, come io lo sono di Gesù Cristo](Cor 4,16;11,1). Vivete in modo, ripeto, che il mondo ancora possa forzatamente dire di voi:[Ecco il Cristo]. Oh! non trovate, per carità, esagerata questa espressione! Ogni cristiano, vero imitatore e seguace del biondo Nazzareno, può e deve chiamarsi un secondo Cristo, del quale in modo assai eminente ne riporta tutta l’impronta. Oh! Se tutti i cristiani vivessero a secondo della loro vocazione, la terra stessa di esilio si muterebbe in un paradiso”. Padre Benedetto da San Marco in Lamis, viene a conoscenza del fatto che padre Pio ha cambiato confessore, affidandosi, ora, al caro don Salvatore Pannullo da lui chiamato amabilmente:”Zi Tore”. E allora gli chiede, in una lettera datata 10 aprile, quali motivi lo hanno spinto a trovarsi un nuovo confessore senza chiedere prima il beneplacito a Lui. Il tono è di quelli severi, ma, con un rinnovato invito di tornare a vivere tra le mura di San Francesco, viene poi stemperato in un saluto affettuoso. La risposta di padre Pio non si fa attendere e, in una lettera densa di tenerezza filiale così risponde il 15 aprile: “...Il confessore poi da me scelto è il parroco, e grazie a Gesù, ho trovato un pochino di conforto. Le ragioni sono diverse, che mi dettero la spinta ad abbandonare il mio vecchio confessore e né varrei a farle intendere se mi volessi provare a metterle in carta; mi prometto di dirvele tutte a voce oppure notificarvele a mezzo di qualche persona,che il Signore vorrà mandarmi. Mi limito qui a dirvi che la ragione principale si fu che a quel mio confessore diede di volta il cervello e pur questo gli si ripeteva spesso anche nel tribunale della mia coscienza e questo specialmente allorché io sentivo più bisogno di aiuto”. Ma è sempre con padre Agostino che il frate di Pietrelcina apre il suo cuore di figlio spirituale manifestando finalmente i segreti più reconditi del suo cuore. E lo fa con asserzioni e confidenze che esprimono un cuore fortemente travagliato dal desiderio di amare il suo Dio. Il 15 aprile padre Pio scrive così al suo direttore spirituale ed amico fraterno: “E’ questa una delle più acute spine che nell’ora presente mi trafigge in modo da ridurmi in agonia. Che significa tutto questo? Forse il Signore non vuole più farsi amare da me? E se questo non è vero, perché il desiderio di amare Iddio supera di molto il fatto stesso di amarlo? Perché Iddio che è sì buono con le sue creature, ricusa di farsi amare quando l’anima ne desidera? Deh, ditemi, per carità, perché l’anima più sente il desiderio di amare e nonostante gli sforzi che ella fa di amare quanto già desidera, sente in sé stessa farsi un vuoto tale quasi che ella non avesse mai amato? Or ditemi, senza umani riguardi, o padre mio, non è desso propriamente un segno assai manifesto che l’anima mia è priva di amore pel suo Dio? Per amor del cielo, ditemi e ditemi tutto, senza nulla nascondermi! Morrò io, dunque, senza aver amato mai il mio Dio? o senza averlo amato quanto io il desidero? Tutto questo mi fa piangere come un bambino ed il più delle volte senza neanche volerlo...”. Padre Pio continua, nella sua amata Pietrelcina, a vivere una meravigliosa stagione spirituale che lascerà ampie tracce sui suoi ricordi finanche a San Giovanni Rotondo dove pure il suo carisma sarà conosciuto ed  irradiato in tutto il mondo. Egli può godere l’incommensurabile privilegio delle apparizioni di Gesù. Lo ricorda, scrivendo a padre Benedetto di San Marco in Lamis il 21 aprile del 1915, in una lettera nella quale accenna ancora ad uno strano fenomeno: “Pure quando sono con Gesù mi avviene di dimandare a Gesù cose, delle quali non ebbi mai in mente; di presentargli pure cioè delle persone che non solo non ho avuto mai in mente, ma quello che più mi arreca meraviglia, che di tali persone non ebbi mai conosciuto e mai ne ho sentito dire”.  In realtà il Padre si trova molto spesso ad affidare al Signore, non solo nelle preghiere, ma anche negli incontri personali con Lui, anime che non ha mai visto, né incontrato e che a volte vede solo in visione, non pregando per altri che si sono affidati a Lui. Un fenomeno, questo, che lo accompagnerà per tutta la sua esistenza. Tante persone sofferenti che hanno avuto il privilegio della sua amicizia, non hanno beneficiato di grazie o guarigioni. Altri, invece, anche senza rivolgersi a padre Pio, sono guariti miracolosamente. Intanto le sofferenze aumentano sia per una forte emicrania che lo accompagna da un po’ di tempo, sia per il dolore della guerra che penetra fino al profondo del suo animo.  Ascoltiamo ciò che scrive, sempre a padre Benedetto, il 27 maggio 1915: “Da più giorni sono afflitto da fortissimi dolori di testa, che mi rendono impotente a qualsiasi applicazione. Gli orrori della guerra mi sconvolgono quasi il cervello: l’anima mia è posta in un’estrema desolazione...Questa benedetta guerra, sì, sarà per la nostra Italia, per la chiesa di Dio una purga salutare: si risveglierà nel cuore italiano la fede, che se ne stava lì rincantucciata e soffocata dalle pessime voglie; farà sbocciare nella chiesa di Dio, da un terreno quasi inaridito e secco, bellissimi fiori; ma, mio Dio!, prima che ciò avvenga, qual dura prova a noi è serbata”. Il 1° luglio padre Pio scrive una bellissima lettera a padre Agostino, soffermandosi in una lunga, commovente e delicata riflessione sul valore della croce:”Quanto è dolce, Padre, il nome croce!; qui, appié della croce di Gesù, le anime si rivestono di luce, si infiammano di amore; qui mettono le ali per elevarsi ai voli più eccelsi. Sia detta croce anche per noi sempre il letto del nostro riposo, la scuola di perfezione, l’amata nostra eredità. A tal fine badiamo di non separare la croce dal’amore a Gesù; altrimenti quella senza di questo diverrebbe un peso insopportabile alla nostra debolezza. La Vergine Addolorata ci ottenga dal suo santissimo Figliuolo di farci penetrare sempre più nel mistero della croce ed inebriarci con lei dei patimenti di Gesù. La più certa prova dell’amore consiste nel patire per l’amato, e dopo che il Figliuolo di Dio patì per puro amore tanti dolori, non resta alcun dubbio che la croce portata per lui diviene amabile quanto l’amore”. La santissima Vergine ci ottenga l’amore alla croce, ai patimenti, ai dolori ed ella che fu la prima a praticare il vangelo in tutta la sua perfezione, in tutta la sua severità, anche prima che fosse pubblicato, ottenga a noi pure e dessa stessa dia a noi la spinta di venire immediatamente a lei d’appresso. Nella lettera successiva, scritta il 10 luglio, padre Pio comunica a padre Agostino il piccolo segreto per arrivare al cuore di Gesù: “Gesù si compiace comunicarsi alle anime semplici; sforziamoci di fare acquisto di questa bella virtù, abbiamola in gran pregio. Gesù disse:” se non vi fate come i fanciulli, non entrerete nel regno dei cieli”. Ma prima di insegnarlo a noi con le parole l’aveva praticata lui stesso col fatto. Si fece bambino e ci diede l’esempio di quella semplicità che poi avrebbe insegnato anche con le parole....La pace è la semplicità dello spirito, la serenità della mente, la tranquillità dell’anima, il vincolo dell’amore”. L’estate del 1915, invece di sollevare padre Pio dalle sue continue sofferenze fisiche e soprattutto spirituali, lo debilita a tal punto che Egli più di una volta si abbandona quasi al desiderio della morte. Le sue lettere a padre Agostino ed alle figlie spirituali hanno l’identico sentire. A Raffaelina Cerase egli scrive il 14 luglio una lettera nella quale apre il suo cuore colmo di pene: “E’ una crisi terribile quella che attraverso, ed ignoro quello che mi è serbato. La crisi che attraverso è più spirituale che corporale, ma non è meno vero che tutto il fisico non senta e non partecipi in modo affatto straordinario a tutte le sofferenze di quello, e tanto l’uno che l’altro concorrono a farmi marcire nel dolore. Ahimé! Chi mi salverà da questo carcere tenebroso! chi mi libererà da questo corpo di morte. Ma viva Iddio nel più alto dei cieli! Egli è la mia fortezza, egli è la salute dell’anima mia, egli è la mia porzione in eterno. In lui spero, in lui confido e non temerò male alcuno”. Cinque giorni dopo, scrivendo a padre Agostino da San Marco in Lamis, ancora una volta erompe in un lamento che è anche una preghiera al Signore: uno stato d’animo che da tempo lo accompagna, inseparabilmente, in un itinerario di ascesi spirituale che, come un crogiolo, lo terge preparandolo all’altissima missione che svolgerà poi, secondo i piani di Dio, nel piccolo eremo di San Giovanni Rotondo su Gargano: “(Quare posuisti me contriarium tibi, et factus sum mihimetipsi gravis?). Questo è il grido che emette l’anima mia dal fondo della sua miseria in cui è posta dal suo Dio. La mia anima è posta dal Signore a marcire nel dolore. Il mio stato è amaro, è terribile, è estremamente spaventoso. Tutto è oscurità intorno a me e dentro di me: oscurità nell’intelletto, afflizioni nella volontà, angustiato sono nella memoria; il pensiero della sola fede mi regge in piedi: nell’intimo sono tocco di dolore, ed in pari tempo afflitto ed ansioso di amore divino...”. Proseguendo, nella sua lunga missiva all’amico e direttore spirituale padre Agostino, così egli lamenta: “Sopra di me, o padre, si è confermato il furore dell’altissimo e tutte le onde ed i flutti, al dir del profeta, si scaricarono sopra di me. Iddio ha allontanato da me gli amici e conoscenti e tutti mi prendono in abominazione. Mi trovo solo a lottare ed a piangere, sia di notte che di giorno: il padre provinciale, a cui in questi giorni ancora ho confidato tutto il mio stato, mi serba perfetto silenzio e non so il perché: il confessore mi sgrida, ed io non trovo consolazione veruna nelle sue lunghe prediche che mi fa al riguardo...Sono proprio solo, come vedete, a salire la vetta del Calvario, privo di ogni celeste e di ogni umano conforto. Potessi almeno pregare e gridare! Gesù sembrami che rifiuti la mia orazione: egli mi minaccia e mi trae fra le tenebre e non alla luce”. LE ORME DI GESU’ SUL CALVARIO: Padre Pio trascorre molti giorni ammalato ed immobilizzato nel proprio letto di dolore. Finalmente, dopo un lungo periodo di sofferenza, il 28 luglio comincia a vivere di una nuova vita. Intanto il suo primo pensiero è quello di recarsi a Napoli per una visita medica per avere un certificato per mezzo del quale potrà essere esentato dal rischio di essere richiamato alla milizia. Ma il viaggio è sconsigliato da padre Agostino, il quale intende tranquillizzare il frate scrivendogli che egli sarà certamente riformato. Ma le pene che accompagnano padre Pio non si attenuano. Il 4 agosto del 1915, ancora una volta padre Agostino raccoglie le confidenze del cuore travagliato di questo giovane frate che, a passi spediti, segue le orme di Gesù sul Calvario:  “Sto per essere schiacciato sotto il peso delle tribolazioni. Il mio spirito continua ad alimentarsi di fiele e di amarezza e non vi è chi possa consolarlo. La desolazione è estrema e non so se potrò scamparla. Mi sento venir meno le forze: quest’ora suprema per l’anima mia non so se potrò viverla a secondo del cuore di Dio. Il solo pensiero della misericordia del Signore è quello che mi fa stare ancora in piedi. Ma continuerà a sorreggermi ancora? Non diffido della bontà del Signore, ma me lo fa temere la mia fiacchezza e la mia ingratitudine verso tante grazie che egli mi va compartendo”. A questa lettera, padre Agostino risponde il 6 agosto con dolcissime parole con le quali esorta, il diletto figlio spirituale a continuare il duro cammino della sua passione: “Il Signore vuole da te cotesta croce: Gesù ti vuole con sé sul Calvario: dunque?...dunque, per quanto possa essere insopportabile il dolore dello spirito, il pensiero che Dio lo vuole deve sorreggere il medesimo spirito”. Nonostante i suoi profondi travagli spirituali derivati anche dal frequente silenzio del ministro provinciale, padre Benedetto da San Marco in Lamis, e malgrado le precarie condizioni di salute, padre Pio intrattiene continui rapporti epistolari con padre Agostino e con tante figlie spirituali protese nel cammino di perfezione cristiana. La sua direzione sarà per molte di loro il viatico di un autentico itinerario mistico. Oltre a Raffaelina Cerase e sua sorella Giovina, si ricordano: Margherita Tresca, che sarà poi suora Brigidina, le sorelle Campanile, Maria Zicari, Maria Gargani, Assunta Di Tomaso, Annita Rodote e tante, tante altre. Ad Annita Rodote, legata da amicizia spirituale con Raffaelina Cerase, padre Pio scrive il 27 agosto del 1915 una lettera nella quale la invita a vivere spiritualmente l’esperienza di Gesù nel Getsemani: “Ma facciamoci animo, o Annita, diamo uno sguardo al divino Maestro che prega nell’orto, e scopriremo la vera scala che unisce la terra al cielo; noi vi scorgeremo che l’umiltà, la contrizione, la preghiera, fanno scomparire questa distanza che passa tra l’uomo e Dio, e fanno sì che Dio discende insino all’uomo e che l’uomo s’innalzi insino a Dio, sicché si finisce coll’intendersi, coll’amarsi, col possedersi. E questo gran segreto insegnatoci da Gesù colle parole e col fatto, io vi invito nel dolcissimo Gesù a praticarlo sempre, tenendo per fermo che dove nelle tenebre dell’uomo coll’uomo chi paventa innanzi al suo nemico, chi è ferito, chi è stramazzato a terra, chi versa il sangue, si ha come vinto, come perduto; nelle lotte, invece, dell’uomo con Dio avviene tutto il rovescio. Colui che trema innanzi a Dio, colui che oppresso sotto il peso della tribolazione, abbattuta alla vista delle profonde ferite che in lui hanno fatto i propri peccati, trascina la sua fronte nella polvere, si abbassa, su umilia, piange, grida, sospira e prega, costui è che vince, che trionfa di Dio e l’obbliga ad usargli misericordia, quando più sdegnato gli pareva”. Il 7 settembre, scrivendo a Raffaelina Cerase, padre Pio si esprime con sentimenti di grande tenerezza e soavità nei confronti di Gesù che Egli chiama “dolcissimo amante delle anime nostre”, invitando la giovane e ricevere “il pane degli angeli con una gran fede e con una gran fiamma di amore”. “Felici noi, o Raffaelina, se arriveremo a ricevere dal Signore della nostra vita di essere consolati di questo bacio! Allora sì che sentiremo essere la nostra volontà sempre legata indivisibilmente con quella di Gesù, e niuna cosa al mondo ci potrà impedire di avere un volere che non sia quello del divin maestro. Allora solo possiamo dire, o mio Dio e mia gloria: Sì, o amante divino, o Signore della nostra vita, “le vostre mammelle sono migliori del vino, e spirano l’odore dei più squisiti profumi”(Ct 1,1). “...L’anima allorquando viene dal dolcissimo Signore fatta degna di poter pronunziare le suddette parole, come le pronunziò la sposa dei Cantici, ella sente una tale soavità, che essa ben s’accorge che Gesù l’è vicinissimo. Tutte le sue potenze sono poste allora in una calma sì perfetta, che a lei sembra di posseder Dio tanto quanto essa possa desiderare. Ella viene quasi a toccare con mano il nulla che sono tutte le cose di questo basso mondo”. UN ICEBERG SPIRITUALE: Nel contatto epistolare con padre Agostino emerge, come un iceberg dall’acqua, la statura spirituale di padre Pio da Pietrelcina. E come un iceberg, la cui struttura più grande è nascosta sott’acqua, così l’anima di padre Pio diviene leggibile pur restando, le ricchezze spirituali sconosciute a tutti, ma non a Dio. Il 10 ottobre del 1915 il frate così risponde a padre Agostino che gli aveva formulato delle domande su alcuni segreti reconditi del suo cuore e delle sue esperienze soprannaturali: “La prima vostra domanda è che volete sapere da quando Gesù cominciò a favorire la sua povera creatura delle sue celesti apparizioni. Se male non mi appongo, queste dovettero incominciare non molto dopo il noviziato. La seconda domanda è se l’ha concesso il dono ineffabile delle sue sante stigmate. A ciò devesi rispondere affermativamente e la prima volta di quando Gesù volle degnarla di questo suo favore, furono visibili, specie in una mano, e poiché quest’anima a tal fenomeno rimase assai esterrefatta, pregò il Signore che avesse ritirato un tal fenomeno visibile. D’allora non apparsero più; però, scomparse le trafitture, non per questo scomparve il dolore acutissimo che si fa sentire, specie in qualche circostanza ed in determinati giorni”. Padre Pio viene chiamato alle Armi. Il 6 novembre dovrà presentarsi alla Milizia. Un grande turbamento si aggiunge alle sue tante pene fisiche e morali. Padre Agostino, come sempre, raccoglie, attraverso la lettera che il santo confratello gli scrive da Pietrelcina il 1° novembre del 1915, le sue intime preoccupazioni: “Con odierno manifesto militare vengono chiamate alle armi classi di terza categoria, 86 e 87, ed io che appartengo a quest’ultima vengo di certo compreso. La presentazione avrà luogo il 6 corrente. Dio mio, cosa mi sarà serbato? Tutti o quasi tutti mi fanno sperare che sarò esentato per ragioni abbastanza manifeste. Solo chi è maggiormente interessato ci spera poco o niente in questo esentamento. Voglio sperare che questo presentimento di pessimismo vada disperso al vanto. Io ci vedo troppo buio. Del resto sono pronto ad affrontare con serenità anche quest’altra nuova prova, a cui il Signore vuole sottopormi”. IL MILITARE: Il 6 novembre Francesco Forgione, si presenta al Distretto Militare di Benevento. Con Lui, giovane religioso, vissuto sempre nella materna protezione della sua Pietrelcina e tra le mura protettrici dei vari conventi, si accompagnano sentimenti nuovi misti a senso di viva preoccupazione per il futuro che lo aspetta nella Milizia. Ma egli denota sempre un fiducioso abbandono alla volontà del Padre Celeste desideroso di fare sempre, attraverso le difficoltà che lo attendono, la sua volontà. Spera di essere esentato dalla Milizia. Ma viene spedito per accertamenti presso l’ospedale militare di Caserta da dove, Il 18 novembre, scrive a padre Agostino: “Sono già otto giorni che mi trovo in questo ospedale militare, mandatovi dal mio distretto di Benevento per motivi di osservazione. Padre mio, io ignoro quale sia la mia sorte, ma qualunque ella sia l’accetto con animo tranquillo e sereno, come se mi venisse offerta immediatamente dalle mani benedette del Padre Celeste. Il feroce capitano medico di Benevento nel visitarmi riscontrò in me la tanto temuta malattia, quale appunto l’è la tisi, ed appunto per questo mi mise sotto rassegna inviandomi qui. La sua diagnosi è, a mio parere, molto esatta e fatta con molta scrupolosità. Si noti pure che detto capitano è proprio della partita ed alla fin fine è professore di università in Napoli. Un brutto tiro però me l’attendo da questo, permettetemi l’espressione, zotico collonnello medico. Egli già mi ha visitato, ma la sua visita si è ridotta a pura formalità: da ciò che mi disse, mi lascia poco a sperare. Non mi ha permesso nemmeno di manifestargli ciò che soffrivo e quanto io cominciavo ad aprir bocca per sottoporgli le mie sofferenze, troncò subito corto col dirmi: (Va bene, al reggimento ve la vedrete con i vostri novelli superiori). Da queste brevissime espressioni pare abbastanza chiaro che Gesù richiede al suo povero servo una grandissima prova. Sia egli adunque mai sempre benedetto da tutte le creature! Piaccia a questo sì tenerissimo sposo, fratello e padre accogliere nell’eterna requie il suo povero servo. Questo dolce pensiero mi sostiene nella prova, mi conforta nelle afflizioni, mi sostiene in piedi nel duro cimento...mi fa uscire fuori di me stesso, mi eleva al di sopra di questo basso mondo, mi fa vivere di Dio e mi fa dimenticare persino in mezzo a chi mi trovo”. Dall’Ospedale militare di Caserta padre Pio torna a Pietrelcina. Viene poi convocato con sollecitudine al Distretto militare di Benevento per ricevere il foglio di viaggio. Consapevoli delle sue precarie condizioni di salute, essendogli stata diagnosticata la tisi, anziché farlo partire subito, i medici militari, gli concedono il pemesso di farlo ritornare a Pietrelcina, per partire poi per Napoli il 6 dicembre. Sono tempi che il frate vive con grande travaglio interiore e inaudite sofferenze fisiche, stemperate dall’affetto e dalla tenerezza dei suoi familiari, soprattutto di mamma Peppa. Veniamo a conoscenza del suo stato d’animo attraverso due lettere scritte nello stesso giorno a padre Agostino ed a Raffaelina Cerase. Così si rivolge al suo vecchio amico e direttore spirituale padre Agostino: “Con mano tremante vi scrivo questa presente. Sono estremamente sfinito di forza e solo per miracolo mi reggo in gambe per adempiere il mio dovere. Sia benedetto Gesù che così vuol provare la fedeltà dei suoi amanti. Domani mattina, lunedì, a Dio piacendo, partirò per Napoli, essendo stato assegnato alla 10^ compagnia sanitaria. Spero nel Signore di potervi di là scrivervi al più presto. Intanto non cessate, o padre mio, di importunare il Divin Cuore e la Vergine Immacolata, affinché mi esentano finalmente da questa terribile prova, altrimenti partirò per lassù con la doppia spada che mi trafigge il cuore, quale appunto l’è il mio doppio esilio, reso ormai insostenibile. ...Vengo a chiedervi, o padre, un favore: questo sarebbe mi usaste la carità di incominciare al più presto le tre novene alla Vergine di Pompei con la recita giornaliera, durante questo periodo, dell’intiero rosario”(Epistolario, I, p. 692 s.). Ed Alla sua figlia spirituale Raffaelina Cerase: “Tenetemi, o figliuola, assieme a quante anime siete a me unite nel vincolo della carità di Cristo, compagnia nel chiedere con importunità ciò che io vado chiedendo. Desidero intanto che assieme alla buona Francesca, all’Annita ed a quante anime a me siete care, ad incominciare per me subito le tre novene alla Vergine di Pompei, con la recita quotidiana dell’intero rosario e con la frequente comunione, che mi auguro che sia tutte le mattine”. Come aveva preannunciato ai suoi amici, padre Pio giunge a Napoli il 6 novembre e, fin dal primo giorno chiede vivamente ai superiori militari di essere visitato, anche perché le sue condizioni fisiche peggiorano e lo stomaco si rifiuta di ritenere il cibo giornaliero. Ma nelle sofferenze non si stanca di benedire Iddio. Dopo tanta attesa, riesce ad essere visitato dal tenente medico comandante la compagnia il quale, sensibile verso le sue cagionevoli condizioni di salute, ma anche per non assumersi responsabilità in proposito, lo rinvia per una seconda visita al capitano medico. Ma la visita tarda a venire. Nell’attesa il giovane Forgione viene esentato dall’abito militare e si stabilisce in un albergo lasciando come indirizzo per la posta diretto a lui: via Cappuccinelle, al n. 18. presso la signora Maria Valillo. Raffaelina Cerase e le persone che sono molto legate a padre Pio innalzano per Lui preghiere al Signore, tramite l’intercessione della Madonna, perché gli vengano risparmiate tante sofferenze. Finalmente il desiderio di padre Pio viene esaudito. Il 17 dicembre scrive da Napoli a padre Agostino:  “Deo gratias. Poc’anzi ho subito la visita collegiale e mi è stato accordato un anno di convalescenza, a causa della riconosciuta malattia: infiltrazione ai polmoni. Quanto è buono il Signore e ringraziatelo anche voi con tutte l’anime amanti di Gesù. Sono sfinito di forze, perdonatemi quindi se scrivo molto brevemente”. Tornato a Pietrelcina, il 18 dicembre, Francesco Forgione può finalmente assaporare, nella pace e nell’intimità della sua famiglia, dei parenti, degli amici del rione Castello e di Piana Romana, momenti di gioia, di serenità, quiete, e di somma di gratitudine verso il Signore. Sono sentimenti che fuoriescono dal suo cuore mentre, due giorni dopo, il 20 dicembre, scrive a padre Agostino:  “Sì, padre, nella considerazione di tanta bontà del Signore, sentomi venir meno il cuore; non valgo a trattenere le lagrime e da un moto irresistibile sentomi portato ad esclamare: (Benedictus Dominis, qui facit mirabilia solus)(Salmo 71), (Magnum Dominus, et laudabilis nimis)(Salmo 47)”. Il Signore, padre mio, ha voluto lui stesso operare questo sacrificio, ha voluto egli stesso prendere la difesa del suo servo, mercé l’intercessione della nostra bella e cara madre Maria Santissima di Pompei”. Il giorno dopo, il 21 dicembre, scrive a Raffaelina Cerase ringraziandola per le sue preghere e per il suo interessamento affinché venisse esentato dal servizio militare: “Io non voglio spendere parole in rendervi grazie e perché non le volete, e perché potrebbe sembrare forse troppa adulazione. Innanzi a Dio, però, mi sento obbligatissimo verso di voi e verso altre anime, e quindi non mi resta altro se non lavorare nella vigna del Signore con più ardore per la vostra perfezione, nonché per tutte quelle anime che il Signore vorrà mandarmi. Quale migliore occupazione di questa, figliuola mia, vi potrà essere? Io non ne conosco altra migliore”. Dopo una lunga assenza, durata circa sette mesi, padre Benedetto, ministro provinciale dei Cappuccini, si rifà vivo e, rispondendo ad una lettera con gli auguri natalizi, invita ancora una volta padre Pio a ritornare alla vita conventuale. Niente impedisce di pensare che più volte padre Benedetto, nei suoi incontri con padre Agostino abbia cercato di invitarlo a persuadere direttamente padre Pio a ritornare fra le mura delle comunità cappuccine.     Lo si evince dagli inviti garbati e affettuosi che l’ex professore di teologia rivolge, nelle continue lettere, al suo diletto figlio spirituale. Ma non sono solo i suoi direttori spirituali a desiderare il ritorno alla comunità cappuccina. Per questa intenzione pregano molto anche alcune sue figlie spirituali come Raffaelina Cerase, Annita Rodote e tante altre. Ascoltiamo uno stralcio della lettera che il 16 gennaio del 1915 padre Agostino scrive a padre Pio: “...E quando finirà l’esilio temporaneo dalla patria claustrale? Silenzio!... Eterno silenzio!... Ecco il motivo della mia afflizione. Perché taci ancora?... Perché Gesù non ancora esaudisce le degnissime preghiere delle sue anime dilette? Quell’anima ha già cominciato altre tre novene alla Vergine di Pompei: essa prega, prega notte e giorno, prega fervorosamente; con lei pregano altre anime che tu sai. Ebbene quando Gesù esaudirà queste anime?...Quando mi dirai tutto intero lo stato attuale del tuo spirito?... Senti ancora nel cuore la brama di tornare fra noi?...... Tu dici che il tuo ritorno sarebbe il tuo suicidio. Ma io non lo credo: perché facendo la volontà del superiore, Dio non può ascrivere a colpa un danno che ti verrebbe. L’obbedienza in tutto e su tutto! Ecco un principio certo di perfezione cristiana: tu lo sai meglio di me”. Una lettera un po’ diversa dalle altre scritte da padre Agostino, che pure è avvezzo, di tanto in tanto, a ricordare al frate di Pietrelcina la sua antica vocazione conventuale. Vi si percepisce l’influenza del ministro provinciale, Padre Benedetto.   Sono spine appuntite e dolorose per il cuore semplice e tenero di padre Pio. Nella sua Pietrelcina si chiude in un silenzio che nasconde certamente il grande interrogativo circa il ritorno in convento.  LA NOTTE DELLO SPIRITO: In un’altra lettera, di ben diverso tenore, padre Agostino gli scrive il 20 dello stesso mese. Ed a questa Padre Pio risponde accennando ad uno dei momenti importanti del suo itinerario mistico: “la notte dello spirito”, una condizione spirituale nella quale “tutto concorre a disporre ed a preparare il cuore a ricevere in sé stesso la forma vera dello spirito, che altro non costituisce che l’unione d’amore”. E nel suo itinerario mistico, Padre Pio ha vissuto, più di una volta, questa esperienza dello spirito. Ecco come risponde alla lettera che padre Agostino gli ha scritto il 20 gennaio:  “...L’anima mia da tempo si trova immersa giorno e notte nell’alta notte dello spirito. Le tenebre spirituali mi durano delle lunghissime ore, dei lunghissimi giorni e spesso delle intiere settimane. ...Continuo è il sospirare dell’anima sotto il peso di questa notte che tutta la circonda, tutta la penetra; ma ella si vede incapace a pensare alle cose soprannaturali non solo, ma sino alle cose più semplici. E quando l’anima è lì per lì per afferrare un solo raggio della divinità, tosto ogni sorta di lume sparisce al suo sguardo......Io mi vado dibattendo; sospiro, piango, mi lamento, ma tutto è indarno; finché affranta dal dolore e priva di forze, la povera anima si sottopone al Signore dicendo: (Non mea, o dulcissime Jesu, sed tua voluntas fiat)”. Sempre nella stessa lettera, facendo riferimento alle pressanti richieste di padre Agostino e padre Benedetto: “...non so se nascondervi la meraviglia o meglio il rammarico per certe dimande fattemi. E dico il vero che molto ne ho pianto. Sia fatta la Divina volontà che così vuole provarmi. Anche il povero Giobbe, permettendolo Iddio, ricevé amarezze e non consolazioni dai suoi amici”.  A queste parole padre Agostino risponde il 29 gennaio con una lettera nella quale ancora una volta afferma che “l’obbedienza deve prevalere su tutte le ragioni del mondo: “...Ebbene l’autorità ha parlato chiaro circa il tuo ritorno nel chiostro: dunque qualunque altro consiglio e di qualunque persona non può fare un’eccezione. L’autorità potrà sbagliare: l’obbedienza non sbaglia mai. Dio medesimo non ha dispensato mai nessuno santo dall’obbedienza all’autorità”. Il provinciale nel caso tuo giunge a dire che il tuo spirito è vittima d’un’illusione diabolica e tu dovresti vincerla. Ti fo notare che anch’egli, il provinciale, ammette vere le grazie che Gesù ti ha accordate; riconosce il tuo stato straordinario, a te concesso dalla sola bontà divina; ma circa la tua permanenza fuor del chiostro dev’essere obbedito contro tutte le altre ragioni in contrario. Da parte mia dico che l’autorità deve prevalere non solo nei comandi ma anche nei consigli; dunque perché tu non credi né ti senti la forza di eseguire la volontà espressa dal provinciale?”. Questa lettera, comincerà a creare i primi presupposti per il definitivo ritorno di padre Pio alla vita religiosa cappuccina. SI PREPARA IL DISTACCO DA PIETRELCINA: Si avvicina per Padre Pio il momento del suo addio a Pietrelcina, il suo paesello tanto amato che conserverà un posto indelebile nella sua memoria. Il 31 gennaio 1916, due giorni dopo l’ultima lettera, padre Agostino richiede la presenza di padre Pio nella città di Foggia, per essere vicino alla sua figlia spirituale Raffaelina Cerase, le cui condizioni fisiche sono tornate ad essere critiche: “ Ora la sorella mi dice che non istà affatto bene e nel tempo stesso mi prega di scriverti, perché donna Raffaelina chiede anche una tua visita. Essa medesima mi disse a voce che, prima di morire, avrebbe bramato la tua conoscenza e la tua visita, quella grazia che fu negata alla buona Francesca. Tu che ne dici?...lo per me credo che Gesù lo voglia: Egli ti darà la grazia di fare questo viaggio sino a Foggia. Del resto tu gliel’hai promesso a donna Raffaelina. Raccomandandoti alle sue preghiere tu stesso le dicevi, per la circostanza della tua visita militare: “Se Gesù mi farà questa grazia, ci vedremo e ci conosceremo”... Donna Giovina mi dice che le spese di viaggio sarebbero tutte a loro carico. Il provinciale non solo assentisce, ma n’è contento. Io sono pronto a fare quanto tu vuoi. Nel caso che ti decidi, non devi fare altro che avvisarmi, anche telegraficamente: io verrei costà o ti attenderei a Benevento; tu puoi disporre nel miglior modo possibile. Spero di non avere una negativa”. Padre Agostino avrebbe atteso, nella eventualità di una partenza, padre Pio alla stazione di Benevento: Ciò per incolumità personale, perché recatosi altre volte a Pietrelcina aveva saggiato il malumore popolare. “La gente di Pietrelcina stimava santo il nostro Padre [Pio]. Una volta una persona gli aveva detto: {Padre Agostì}, ci vuliti levà lu santariello nostro?...Nuie ve rumpimmo a faccia...!”. Un’altra volta lo avevano minacciato e volevano passare dalle parole ai fatti, ma l’arciprete e Padre Pio intervennero e nulla successe. (AGOSTINO DA S.MARCO IN LAMIS, Notizie su Padre Pio, quaderno IV, Diario, p. 200). E lo stesso padre Agostino, a tal proposito scriverà: “Il Provinciale, Padre Benedetto da San Marco in Lamis, avrebbe voluto che fossi andato io a rilevare il Padre a Pietrelcina. Feci osservare che io non mi sentivo di andare lì col timore di essere linciato dalla gente, senza del resto ottenere l’intento, perché i Pietrelcinesi non avrebbero permesso la partenza di padre Pio”(Diario p.201). Il 3 febbraio, Padre Pio risponde al suo amico fraterno: “Lascio immaginare a voi la vivissima impressione, che questa vostra mi cagiona per le notizie che mi dà, sebbene da un pezzo mi ci andavo preparando. Sono poi superlativamente spiacente non potere pel momento assecondare il piissimo desiderio di quella povera anima, che sarebbe anche mio, quantunque ignoro gl’isperati effetti. Agli altri malanni si è aggiunta anche una ben forte influenza, che mi rende del tutto incapace; ma poiché come voi mi dite che a voi sembra che Gesù voglia una tale visita a detta anima, mi auguro da Gesù che appena mi farà sentire un tantino meglio, mi ci recherò, facendomi possibilmente accompagnare da qualcuno e così eviterei a voi un non lieve imbarazzo.” A questa lettera padre Agostino risponde il 5 febbraio con l’intenzione di predisporre il frate ad un soggiorno non molto breve.  Ancora una volta sembra di vedere, in questo viaggio che si richiede a padre Pio,  la volontà del padre Provinciale, Benedetto da San Marco in Lamis, che attraverso questo viaggio intende fare in modo che Padre Pio, una volta raggiunta Foggia, venga obbligato a restare presso la Comunità Cappuccina del capoluogo. Lo si può capire anche in questa lettera che padre Agostino scrive al suo figlio spirituale: “ Prima di tutto quell’anima [Raffaelina Cerase n.d.a.], mi ha detto chiaramente che debbo accompagnarti io; essa non vorrebbe vederti in compagnia di altri. In secondo luogo fra non molto dovrò recarmi a Benevento per ordine del provinciale per un affare della provincia presso quella prefettura; quindi potrei carpire tale occasione per accompagnarti. In terzo luogo tu a Foggia certamente devi trattenerti un po’ di giorni, perché quell’anima non si contenterebbe d’una sola visita e non può contentarsi; di più ella senza dubbio vorrà che tu dica alcune messe nella sua cappella di famiglia; insomma si tratterà di tenere alcune conferenze spirituali; infine bisognerebbe visitare anche il santuario di Maria santissima Incoronata. Tutto sommato se ne andrà certamente un po’ di tempo; quindi se t’accompagnasse qualcuno di costà non potrebbe trattenersi a Foggia alcuni giorni, tanto più che là vige il decreto fatto da parecchi anni fa, che i parenti dei religiosi ed altri secolari non possono trattenersi oltre il secondo giorno d’arrivo”. Al Disegno di portare padre Pio a Foggia, non mancano che alcuni tasselli. L’invito rivolto da parte di padre Agostino a non portare con sé a Foggia alcun familiare, lascia chiaramente presagire l’intenzione di non dare al giovane frate sostegno alcuno per un eventuale ritorno a Pietrelcina. Certamente padre Pio vive un tempo di particolare travaglio e forse già intuisce che non ritornerà più, se non per pochi giorni e di passaggio, nel suo amato borgo natio.